SEDEVACANTISMO

Da

IL NUOVO OSSERVATORE CATTOLICO

ANNO 2003 N. 22

 

 

LE RAGIONI DEL SEDEVACANTISMO

 

 

Con il presente articolo vogliamo confutare le argomentazioni esposte nel n° 52 de La Tradizione Cattolica dedicato esclusivamente alla critica del sedevacantismo. L’autore mischia argomenti sostenuti dai sedevacantisti con quelli avanzati dagli aderenti alla Tesi detta di Cassiciacum (1) che ammettono la validità dei conclavi di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, pur riconoscendo gli eletti solo come papi materiali e non formali, occupanti di diritto la Sede Romana.

Senza voler dare origine ad una sterile polemica, ma per chiarire i termini del problema, ci sentiamo in dovere di rispondere alle obiezioni ed alle argomentazioni proposte in quel numero relativamente al sedevacantismo. Non riproporremo in questa sede le dimostrazioni sull’eresia dei “papi conciliari”, ma ci limiteremo ad affrontare gli argomenti proposti dall’autore dell’articolo della Tradizione Cattolica.

Innanzi tutto bisogna considerare che l’intero articolo è stato redatto in modo asettico e completamente avulso dalla realtà.

L’autore o gli autori anonimi non tengono minimamente in considerazione i due argomenti principali che permettono ai sedevacantisti di sostenere la loro posizione ovvero:

1)      La dovuta sottomissione al Romano Pontefice; quest’obbligo è definito già da Bonifacio VIII nella Bolla “Unam Sanctam” nella quale sancisce che: «…è assolutamente necessario alla salvezza per ogni creatura umana essere sottomessa al Pontefice Romano» (DS. 875)

2) L’infallibilità della Chiesa e del papa nell’oggetto secondario del Magistero; fanno parte di quest’oggetto, tra l’altro: l’infallibilità delle leggi universali, disciplinari e liturgiche, promulgate dalla suprema autorità ecclesiastica ed imposte a tutta la Chiesa, ed ancora la canonizzazione dei santi (2).

Relativamente all’oggetto secondario del Magistero, citiamo a conferma di quanto sostenuto alcuni stralci tratti dal Magistero della Chiesa e dei Romani Pontefici, che insegnano che l’infallibilità non deve essere ristretta alle sole definizioni solenni della Chiesa o alle definizioni ex cathedra. Tali atti del Magistero condannano parimenti chi pretende di voler vagliare l’insegnamento del Pontefice Romano. Successivamente a conferma di quanto affermato riporteremo i passi salienti d’alcuni teologi:

 

IL MAGISTERO

 

Il Concilio Vaticano I, Costituzione Apostolica Pastor Aeternus condanna chi afferma che il Romano Pontefice: «Il Romano pontefice ha la potestà suprema di giurisdizione non soltanto in ciò che concerne la fede ed i costumi, ma anche in ciò che riguarda la disciplina e il governo della Chiesa diffusa in tutta la terra». (DS 3064) (3).

Pio VI, Bolla Auctorem fidei del 28 agosto 1794 (condanna del conciliabolo di Pistoia), DS. 2678: la proposizione 78ª del Sinodo di Pistoia è qualificata, «Dato che per la generalità delle parole abbraccia e sottopone all’esame sopra descritto anche la disciplina istituita ed approvata dalla Chiesa, come se la Chiesa che è condotta dallo Spirito di Dio, potesse stabilire una disciplina, non solamente inutile e più gravosa di quanto la libertà cristiana possa sopportare, ma anche pericolosa, nociva, e che conduce alla superstizione ed al materialismo” e condannata come “falsa, temeraria, scandalosa, dannosa, offensiva per le orecchie pie, ingiuriosa per la Chiesa e per lo Spirito di Dio da cui essa è condotta, quanto meno erronea» (4).

Leone XII nell’Enciclica Quo graviora, del 13 marzo 1825, a questo proposito insegna: «Forse che la Chiesa, che è la colonna e il fondamento della verità e che in modo manifesto riceve senza interruzione dallo Spirito Santo l’insegnamento di tutte le verità, potrebbe ordinare, accordare, permettere una cosa che si rivolgerebbe a detrimento alla salvezza delle anime e a disprezzo e alla rovina di un sacramento istituito da Nostro Signore Gesù Cristo?».

Pio IX nell’Enciclica Quae in patriachatu, del 1 settembre 1876 afferma: «A che cosa serve, infatti, proclamare il dogma cattolico del primato del Beato Pietro e dei suoi successori, e aver diffuso tante dichiarazioni di fede cattolica e d’ubbidienza verso la Sede Apostolica, quando poi i fatti contraddicono apertamente le parole? Non diventa forse persino meno scusabile l’ostinazione, quanto più si riconosce il doveroso obbligo di obbedienza? E ancora, forse che l’autorità della Sede Apostolica non si estende tanto da poter decretare ciò che è stato da Noi disposto? O basta forse avere comunione di fede con essa, senza sottomissione ed obbedienza? Queste cose non si possono sostenere se si vuol considerare salva la fede cattolica. (…)

Si tratta infatti, Venerabili Fratelli e diletti figli, dell’obbedienza che si deve prestare o negare alla Sede Apostolica; si tratta di riconoscere la sua suprema potestà anche nelle vostre chiese, non solamente per ciò che riguarda la fede, ma anche per quanto concerne la disciplina; chi l’avrà negata è un eretico (quam qui negaverit, haereticus est); chi invece l’avrà rifiutata, e ostinatamente si rifiuterà di obbedire, è degno di anatema anatema (qui vero agnoverit, eique obedire contumaciter detrectet, anathemate dignus)».

Leone XIII afferma nella lettera Testem benevolentiae del 22 gennaio 1899: «Ed è testimone la storia di tutte le età passate che questa Sede Apostolica, a cui fu affidato non solo il magistero, ma anche il supremo governo di tutta la Chiesa, rimase bensì costante “nello stesso dogma, secondo lo stesso senso e la stessa opinione” (Cost. Dei Filius), e fu sempre solita regolare il modo di vivere così, che salvo il diritto divino, non trascurò mai i costumi e le esigenze di tanta diversità di popoli, che essa abbraccia. E, se la salvezza delle anime lo richiede, chi dubiterà che anche ora non farà altrettanto? Vero è che il decidere di questa non spetta all’arbitrio dei singoli uomini, che per lo più sono tratti in inganno da un’apparenza di rettitudine; ma spetta alla Chiesa giudicarne; e al giudizio della Chiesa è necessario che si conformi chiunque non vuole incorrere nella riprensione di Pio VI nostro predecessore» .

San Pio X, Allocuzione Con vera soddisfazione, ai partecipanti del Congresso universitario cattolico di Roma, 10 maggio1909:

«Vi raccomando soltanto d’essere forti per conservarvi figli devoti della Chiesa di Gesù Cristo, quando tanti purtroppo, senza forse saperlo, si mostrano ribelli, perché il criterio primo e massimo della fede, la regola suprema ed incrollabile dell’ortodossia è l’obbedienza al magistero sempre vivente ed infallibile della Chiesa, costituita da Cristo “columna et fundamentum veritatis” (colonna e fondamento della verità).

Gesù Cristo che conosceva la nostra debolezza che è venuto in questo mondo per evangelizzare soprattutto gli umili, ha scelto per la diffusione del Cristianesimo un mezzo molto semplice, adattato alla capacità di tutti e di tutti i tempi, un mezzo che non richiede né erudizione, né ricerche, né cultura, né ragionamento, ma solamente delle buone orecchie per sentire ed un cuore buono per ubbidire. Per questo motivo San Paolo afferma: “Fides ex auditu”, la fede viene non tramite gli occhi, ma dalle orecchie, dal Magistero vivente della Chiesa società visibile composta di maestri e di discepoli, di amministratori e di sudditi, di pastori, di pecore e d’agnelli. Gesù Cristo sé ha ingiunto ai suoi discepoli d’ascoltare le lezioni dei maestri; ai sudditi di vivere sottomessi ai loro capi; alle pecore ed agli agnelli, di camminare docilmente dietro i loro pastori; ai pastori, ai governanti ed ai padroni ha detto: “Docete omnes gentes. Spiritus veritatis docebit vos omnem veritatem. Ecce ego vobiscum sum usque ad consummationem saeculi”.

E quindi, con un sistema di sofismi e d’inganni, insinuano il falso concetto dell’obbedienza insegnato dalla Chiesa; si arrogano il diritto di giudicare gli atti dell’autorità persino deridendola; si attribuiscono una missione che non hanno né da Dio né da alcuna autorità, per imporre delle riforme; limitano l’obbedienza ai soli atti esteriori, se pur non resistono e si ribellano contro alla medesima autorità, opponendo il giudizio fallace di qualche persona senza autorevole competenza o della loro propria privata coscienza illusa da vane sottigliezze, al giudizio ed al precetto di chi per divino mandato, è legittimo giudice, maestro e pastore.

Né vi lasciate ingannare dalle subdole dichiarazioni di altri, che protestano ripetutamente di volere stare con la Chiesa, di amare la Chiesa, di combattere perché il popolo non si allontani da essa, di lavorare perché la Chiesa, comprendendo i tempi, si riaccosti al popolo e lo riguadagni. Ma giudicateli dalle loro opere. Se maltrattano e disprezzano i Pastori della Chiesa e persino il Papa; se tentano con ogni mezzo per sottrarsi alla loro autorità, per eludere le loro direzioni ed i loro provvedimenti, se si peritano d’innalzare la bandiera della ribellione, di quale Chiesa intendono questi parlare? Non, certamente, di quella stabilita: super fundamentum Apostolorum e Prophetarum, ipso summo angulari lapida Christo Jesu».

Pio XII, anche nell’enciclica Mystici Corporis Christi, del 29 giugno 1943 fa rilevare:

«Si, certamente, senza alcuna macchia risplende la pia Madre nei sacramenti con i quali con i quali genera e alimenta i figli, nella fede che conserva sempre incontaminata, nelle santissime leggi con le quali comanda…».

 

I TEOLOGI

 

Passeremo ora a citare alcuni teologi i quali ripetono tutti, la stessa dottrina sull’infallibilità delle leggi. Ci accontenteremo di citarne qualcuno:

«Possedendo il papa tutta l’infallibilità confidata da Gesù Cristo alla sua Chiesa, si deve, dunque, concludere, nella stessa misura ed alle stesse condizioni, all’infallibilità dell’insegnamento dogmatico o morale praticamente inclusi nelle leggi o decreti promulgati dal papa per la Chiesa universale” (D.T.C. VII, 1706) (5).

«Il Pontefice (e la Chiesa, N.d.R.) sono infallibili nell’elaborazione delle leggi universali concernenti la disciplina ecclesiastica (liturgia e diritto), in modo che non possano stabilire mai qualche cosa che possa in alcun modo essere contrario alla fede ed ai costumi» (6); nel qual caso «la Chiesa – come dice, tra l’atro, il teologo Hervé - cesserebbe di essere Santa e cesserebbe, dunque, d’essere la vera Chiesa del Cristo» (7).

«La Tesi che proponiamo è almeno “theologice certe”: A molti seri dottori pare, non senza ragione, che questa tesi sia da ritenersi “de fide divina” come una cosa che sia da Dio rivelata. Non ancora tuttavia questa verità è definita o proposta dal Magistero della Chiesa come un dogma di fede da credersi. Tuttavia era pronto nel concilio Vaticano I il seguente canone:“Se qualcuno restringe l’infallibilità della Chiesa a ciò che soltanto è contenuto nella divina rivelazione e non l’estende anche alle altre verità che sono necessarie per custodire integro il deposito della rivelazione “anathema sit”» (8). Lo stesso teologo dedica tutto il paragrafo IV all’esercizio dell’infallibilità nella promulgazione della «generale disciplina ecclesiastica» (9).

Sisto Cartechini S.J., afferma:

 «... in quanto poi a quelle verità che non sono proposte come rivelate, sono tutte da ritenersi almeno come dottrina cattolica. Anche a riguardo di queste il pontefice può esercitare la sua infallibilità, ed è teologicamente certo che anche in queste è infallibile, benché non sia definito.

Se nelle encicliche, il pontefice non esercita la sua infallibilità – ciò deve apparire dalla materia, dallo stato della questione e dalle parole usate, - anche in questo caso le proposizioni proposte devono essere accettate, ed anche per obbligo grave in materia grave, con assenso anche interno, non già come nel caso di verità definita quale infallibile, ma come dottrina da tenersi ed insegnarsi. Chi nega in cosa grave una dottrina insegnata dal papa (dottrina cattolica) in un enciclica è almeno gravemente temerario» (10).

 

LE CANONIZZAZIONI DEI SANTI

 

La pretesa canonizzazione di Escrivà de Balaguer pone altresì il problema dell’infallibilità della canonizzazione dei Santi (11) che fa parte anche questa dell’oggetto secondario del Magistero.

Tutti i teologi sostengono che il papa nell’atto della canonizzazione esercita il suo potere di magistero infallibile.

Ludovico Ott così scrive: «All’oggetto secondario dell’infallibilità appartengono (tra l’altro): La canonizzazione dei Santi, cioè il giudizio definitivo che proclama che un membro della Chiesa è entrato nella beatitudine celeste e può essere oggetto di un culto pubblico. Il culto reso ai santi è, come insegna San Tommaso, “una professione di fede per cui crediamo alla gloria eterna dei santi”. (Quodlib., IX, 16). Se la Chiesa potesse errare nel suo giudizio ne risulterebbero della conseguenze inconciliabili con la sua santità» (12).

Sisto Cartechini così si esprime in merito:

«Santi e beati. L'oggetto proprio che viene definito dalla Chiesa nella canonizzazione dei santi, è che una data persona in concreto, per esempio Giovanni Bosco, è un santo e merita quel culto il quale viene imposto a tutti i fedeli verso di lui. Da questo segue necessariamente che quel santo già si trova in Paradiso. Ma nello stesso tempo la Chiesa ci propone col suo magistero ordinario, il medesimo santo come esimio esemplare di vita cristiana. Un martire invece, in quanto tale, viene proposto come esemplare per sé solo di fortezza e di carità della morte sostenuta per Cristo.

Nelle canonizzazioni dei santi è teologicamente certo che la Chiesa sia infallibile, non è invece teologicamente certo che lo sia anche nelle beatificazioni”. “La canonizzazione dei santi.

Essa non è se non l'applicazione concreta di due articoli di fede, quello sul culto dei santi e l'altro della comunione dei santi. È dottrina cattolica o teologicamente certa che la vita del santo che viene canonizzato sia esempio esimio e modello di vita cristiana e di perfetta virtù. Si capisce che viene sancito il complesso generale della vita del santo e non il valore dei singoli atti e molto meno l’imitabilità dei medesimi, ossia l'attitudine ad essere imitati da tutti. Quindi non perché una cosa è fatta o detta da qualche santo, questa sia la sola ragione perché possa farsi da tutti. Così San Paolo si oppone in faccia a San Pietro perché era degno di riprensione; tuttavia sarebbe molto pericoloso se ciascuno lo volesse imitare proprio in questo» (13).

 

IL FATTO DOGMATICO DELL’ELEZIONE DI PAOLO VI

 

Annoverare come fatto dogmatico l’elezione di Paolo VI è un evidente imprecisione in cui incorre l’autore dell’articolo: “È pero un fatto dogmatico, cioè un dato che deve essere ammesso come assolutamente certo a causa delle sue connessioni dirette con il dogma, che Paolo VI fosse papa nel giorno della sua elezione al Sommo Pontificato. Il motivo formale su cui si fonda questo fatto dogmatico consiste nel fatto che un nuovo papa, riconosciuto come tale da tutta la Chiesa, dispersa nel mondo, è certamente papa. Che piaccia o no, è quanto è accaduto il 21 giugno 1963 per il cardinal Montini, il quale peraltro – ironia della sorte – ha avuto una delle cerimonie di incoronazione più solenni della Storia”. (La Tradizione Cattolica p. 30)

È opportuno precisare che il fatto dogmatico, scricte sensu, non consiste nell’accettazione da parte della Chiesa (clero e fedeli) di un determinato papa, bensì nel riconoscimento ufficiale della legittimità di un papa da parte della Chiesa. Eventualmente l’accettazione di un papa da parte della Chiesa può essere soltanto un segno della sua legittimità.

Il già citato teologo Timoteo Zapelena così si esprime: «E la Chiesa non può errare nel definire o nel dichiarare la legittimità di un determinato papa. Pertanto il valore dogmatico delle definizioni promulgate dal papa, dipendono dalla verità storica di questo fatto conosciuto per certo: se il papa non è legittimo, non è vero successore di Pietro; di conseguenza non è infallibile. Dunque se la Chiesa potesse errare nel dichiarare la legittimità di un determinato papa, accetterebbe come dogmi rivelati da Dio, quelle cose che per se stesse non sono tali» (14).

La legittimità di un papa, dunque, è intimamente connessa con l’esercizio dell’infallibilità, cosa a cui l’autore dell’articolo della Tradizione Cattolica non accenna minimamente.

L’autore anonimo dell’articolo cita, però in suo sostegno il Card. L. Billot: «Qualunque cosa si possa pensare della possibilità o impossibilità della suddetta ipotesi (il riferimento è alla ipotesi - considerata “impossibile” dallo stesso Billot - del papa che cadesse nell’eresia e quindi perdesse il pontificato) (15). Almeno un elemento deve essere mantenuto come incrollabile e assolutamente certo: l’adesione universale della Chiesa sarà sempre, semplicemente in se stessa, segno infallibile della legittimità della persona del Pontefice ed ugualmente dell’esistenza di tutte le condizioni richieste alla medesima legittimità. La ragione di tale verità non necessita di lunghe argomentazioni. Infatti è immediatamente dimostrabile a partire dall’infallibile promessa di Cristo e dalla sua provvidenza: “Le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”, e ancora: Ecco io sono con voi tutti i giorni. Da ciò ne consegue che se la Chiesa aderisse ad un falso pontefice sarebbe come se aderisse ad una falsa regola della fede, essendo il Papa la regola vivente che la Chiesa nel credere deve seguire e sempre di fatto segue, come apparirà chiaramente da ciò che diremo in seguito. Perciò Dio può permettere che talora la vacanza della sede apostolica si protragga più a lungo. Può permettere anche che sorga un dubbio su l’uno o l’altro eletto. Ma non può permettere che tutta la Chiesa riconosca come pontefice colui elle non sia un legittimo e vero papa. Dal momento in cui viene riconosciuto ed è unito alla Chiesa come la testa al corpo, non deve più essere sollevata nessuna questione circa una possibile anomalia nella procedura dell'elezione o circa il difetto di qualsivoglia condizione necessaria alla legittimità, in quanto il menzionato riconoscimento da parte della Chiesa sana in radice ogni eventuale anomalia nell’elezione, e dimostra infallibilmente la presenza di tutte le condizioni richieste» (16).

La Tradizione Cattolica, cita in modo incompleto il testo del Card. Billot, il quale riporta immediatamente dopo, come esempio pratico, il caso di Alessandro VI, la cui legittimità fu messa in dubbio dal Savonarola. L’accettazione da parte della Chiesa sanò il vizio di simonia, (17) che si era verificato al momento della sua elezione. Il Nostro “dimentica” di citare il periodo finale di capitale importanza, che mostra quale sia il vero pensiero del teologo gesuita. Il Billot, infatti, prosegue così: «E ciò sia detto contro quelli che con intento scismatico al tempo di Alessandro VI vollero dar risalto a certi fatti da lui compiuti e ripetevano spesso che l’ereticità di Alessandro VI doveva essere rivelata in modo certo in un Concilio generale. Ma in verità omettendo gli altri argomenti con i quali questa opinione può essere facilmente confutata, visto che un solo argomento é sufficiente: consta senza dubbio che al tempo in cui il Savonarola scriveva le sue lettere ai principi, tutta la Cristianità aderiva e obbediva ad Alessandro come vero pontefice. Dunque per il fatto stesso, Alessandro non era un falso pontefice, ma legittimo. Dunque non era eretico, almeno di una tale eresia che fosse sufficiente a porlo al di fuori dei membri della Chiesa, e che di conseguenza priva, per il fatto stesso, della potestà pontificia o di qualsivoglia altra ordinaria giurisdizione» (18).

È, dunque, vero che per il cardinale Billot, l’accettazione della Chiesa é il segno, che tutte le condizioni di eleggibilità, compresa la cattolicità dell’eletto, sono presenti. È però altresì vero che per il Card. Billot questa accettazione include la sottomissione e l’obbedienza di tutta la Chiesa. Come può il nostro invocare quest’argomento del Billot quando lui stesso che lo voglia o no, con tutti i tradizionalisti, è obbligato a non essere sottomesso ed ad non obbedire a Paolo VI prima e poi a Giovanni Paolo II per restare cattolico? Accettare il papa senza essere sottomessi ed obbedirgli è un errore gallicano, condannato non per ultimo da Pio IX nella citata enciclica Quae in Patriarchatu, ripreso dalla Fraternità San-Pio X.

Il Card. Billot, inoltre, nello stesso capitolo, poco prima del testo citato, sostiene che un papa caduto in eresia perderebbe, ipso facto, sine ulla declaratione, il pontificato. A questo proposito l’autore della Tradizione Cattolica inserisce nel testo, come si è visto questa frase: “Il riferimento è all’ipotesi – considerata “impossibile” dallo stesso Billot – del papa che cadesse in eresia e quindi perdesse il pontificato”. Il Card. Billot invece non sostiene che è impossibile, ma cosi spiega: «Se dunque si realizza l’ipotesi che un papa diventi notoriamente eretico, senza esitazione (incunctanter), bisogna concedere che “ipso facto” perderebbe la potestà pontificia, perché di sua propria volontà si porrebbe al di fuori del corpo della Chiesa, diventando infedele, come bene dicono gli autori che a torto come sembra sono confutati da Gaetano. Ho detto se l’ipotesi si realizzasse. Ma che questa ipotesi sia una mera ipotesi che non può realizzarsi appare di gran lunga più probabile, secondo quanto dice Luca 22, 32» (19). È evidente, dunque, che, secondo le stesse parole del teologo gesuita, l’ipotesi non è per nulla impossibile, ma solo improbabile (20).

Quello che appare evidente è che per il Card. Billot vi é incompatibilità tra eresia e giurisdizione papale. Il canonista Sipos espone molto bene quali siano le persone che possono essere elette al papato e quelle non atte: «Può essere eletto non importa quale uomo maschio che abbia l’uso di ragione e che sia membro della Chiesa. Sono, perciò, eletti invalidamente le donne, i bambini, i dementi, i non battezzati, gli eretici e gli scismatici» (21). Il canonista Sipos e gli altri molto probabilmente erano a conoscenza degli scritti del cardinale gesuita.

In ogni caso, in qualsiasi ottica si voglia interpretare il testo del cardinale gesuita, questo va inserito nel contesto storico in cui il teologo scriveva. È da notare che il Card. Billot cerca di eclissare ogni argomento che possa contrastare con il compito prefissato nel suo libro: esaltare il papato e l’infallibilità del magistero pontificio, per contrastare i rigurgiti dei vecchi cattolici e gallicani che continuavano ad mettere in dubbio e a negare l’infallibilità pontificia, pertanto, nel suo esempio probatorio non fornisce i dati riguardo all’eresia di cui era accusato Alessandro VI. Comunque questa è la tesi del Card. Billot sul fatto dogmatico, interpretato diversamente da altri teologi (vedi il testo sopra citato di Timoteo Zapelena).

La Bolla di Papa Paolo IV, a prescindere dal suo valore giuridico, argomento che sarà affrontato in altro contesto, fa parte del Magistero della Chiesa. In questa Bolla si evince l’incompatibilità tra eresia e supremo pontificato. Il testo citato di Paolo IV afferma che potrebbe capitare che nonostante l’obbedienza prestata all’eletto del conclave da parte di tutti, l’eletto potrebbe essere incorso in eresia e non esservi stata fino ad allora nessuna denuncia e ciò diventerebbe evidente solo successivamente all’elezione (22). Questo stesso argomento era già stato utilizzato da Giulio II nella Bolla “Cum tam divino” contro la simonia e sanciva la nullità dell’elezione avvenuta in modo simoniaco di un papa, nonostante l’accettazione universale della Chiesa.

Usando, lo stesso criterio (dell’accettazione universale) si potrebbe sostenere che tutti documenti del Vaticano II (23) sono legittimi e cattolici, perché accettati universalmente da tutta la Chiesa ed approvati dal papa. Il 7 dicembre 1965, infatti, nessun vescovo si levò durante la Sessione conclusiva del Vaticano II, accusando pubblicamente che alcuni documenti approvati contenevano eresie e/o errori; tutti i vescovi, al contrario, accettarono la promulgazione dei documenti conciliari, compreso Mons. Lefebvre come riporta il suo biografo ufficiale Mons. B. Tissier de Mallerais. Applicando maldestramente le argomentazioni di Billot, il Card. Siri, dopo aver fatto un’aspra critica alla teologia conciliare, giunse ad affermare che gli stessi documenti conciliari “dovevano essere letti in ginocchio” perché approvati dalla Chiesa e dal papa. (cfr. il libro del Card. Giuseppe Siri: Getzemani)

Quest’argomento che l’autore dell’articolo pubblicato su Tradizione Cattolica ritiene basilare, va necessariamente ridimensionato anche in base a quanto affermato da altri teologi e dalla realtà attuale dei fatti, che nessun teologo poteva allora immaginare.

Per terminare questo paragrafo si vuole proporre un avvenimento eclatante nella storia della Chiesa dove un papa per un certo tempo considerato legittimo cessò di essere reputato tale dopo che la Chiesa si pronunciò alcuni secoli dopo sulla legittimità di papi e concili. È il caso di Alessandro V papa eletto dal Concilio di Pisa al tempo del Grande Scisma d’Occidente, infatti ancorché non accettato da tutta la Chiesa, lo fu implicitamente da parte di un papa, Alessandro VI, assumendo quel nome, implicitamente accettava la legittimità di Alessandro V. Durante la Controriforma (24) la Chiesa si espresse invece a favore di Gregorio XII, che pur era riconosciuto da pochissimi presuli e da pochi fedeli, e non di Alessandro V che fu annoverato tra gli antipapi, ancorché fosse a suo tempo riconosciuto dalla maggioranza dell’episcopato cattolico. Quindi è questa dichiarazione della Chiesa che deve essere considerata come fatto dogmatico e non l’accettazione della Chiesa.

 

CHI È CHE FA IL LIBERO ESAME?

 

La Tradizione Cattolica a pagina 34, così si esprime: “La cosa è assurda (che il criterio della fede sia l’unico a determinare la legittimità di un papa) e fa pensare immediatamente al libero esame protestante in virtù del quale ogni fedele, proprio perché ha la fede, è illuminato direttamente da Dio nel conoscere la verità senza più bisogno della mediazione della Chiesa: l’origine della fede non è più da ricercarsi nella predicazione di Pietro ma in un principio immanente che mi permette di capire chi è il mio vero Pietro: in questo modo un papa non può più essere, nemmeno de jure, regola oggettiva della fede della Chiesa ma diventa espressione della mia fede” È possibile che l’autore non si accorga che cercando di difendere impropriamente la legittimità di Paolo VI come fatto teologico, per usare un’espressione colorita e popolare: “sì da la zappa sui piedi”? È proprio la Fraternità San Pio X, la prima ad usare del libero esame, vagliando tutti gli atti del Vaticano. Si pronuncia, infatti, sul contenuto di una determinata enciclica o di un certo documento decidendo ciò che è conforme alla fede oppure no. Questo contraddice pienamente quanto espresso da Pio XII nella Vos omnes, del 10 settembre 1957  in cui dichiara: «Che, tra voi, non ci sia posto per l’orgoglio del “libero esame” che rileva da una mentalità eterodossa piuttosto che da uno spirito cattolico, e secondo il quale gli individui non esitano a soppesare al peso del loro giudizio ciò che proviene dalla Sede Apostolica».

L’autore prosegue nel suo “ragionamento”:

“…se (…) abbiamo una certezza assoluta del fatto che Pio XII è stato veramente papa, questa si baserebbe sul fatto che lo abbiamo ascoltato insegnare cose che ci sono sembrate giuste e quindi lo abbiamo riconosciuto vero papa: in realtà però una tale certezza non ha più nulla di oggettivo e di assoluto”.

Se non possono sorgere dubbi sulla legittimità di Pio XII, non è perché ha affermato cose che ci possono sembrare giuste, ma è perché essendo veramente papa non ha mai promulgato atti in cui si riscontrassero oggettivamente degli errori dottrinali e che coinvolgessero l’infallibilità anche soltanto nell’oggetto secondario del Magistero. Nessun vero papa, infatti, può promulgare un rito che sia nocivo per la fede e portare seppur anche indirettamente all’eresia.

L’autore dell’articolo pubblicato dall’organo della Fraternità in Italia, tratta poi di Paolo VI come trattasse di Pio IX o di Pio XII.

L’autore, infatti, non tiene minimamente conto dei trascorsi di Monsignore e poi cardinale Montini, dei suoi intrallazzi con i sovietici, dei suoi problemi con il Card. Marchetti Selvaggiani a proposito della celebrazione della Messa coram populo con i giovani della FUCI., dei suoi discorsi. Particolarmente quello pronunciato quando era cardinale durante una visita all’Unione Industriale di Torino; in breve fa astrazione dalla sua formazione modernista che ha permeato tutti gli anni che hanno preceduto la sua elezione al pontificato.

Molto ci sarebbe, poi, da ridire sulla cerimonia dell’incoronazione. Montini, infatti, fu il primo a modificare il rito dalle otto ore precedenti previste dagli “Odines Romani” ridotta a sei ore e celebrata in ogni sua parte in piazza San Pietro anziché all’interno della Basilica, ad esclusione dell’incoronazione vera e propria che precedentemente veniva solennizzata sulla loggia centrale.

La partecipazione di molteplici capi di Stato, infine, è un ulteriore dimostrazione che un fautore delle idee liberali non poteva che essere acclamato e riconosciuto da molti suoi simili.

 

UNA STRANA ECCLESIOLOGIA

 

Le argomentazioni citate dall’autore della Tradizione Cattolica vengono meno dal momento che si affronta la posizione di Paolo VI relativamente all’oggetto secondario del Magistero e alla dovuta obbedienza alla sua autorità. La sottoscrizione dell’art. 7 del Novus Ordo Missae la promulgazione di Dignitate Humanae personae e di Nostra aetate, la sottoscrizione dei vari libri liturgici e che hanno cambiato tutti i riti dei sacramenti, sono pietra d’inciampo per ogni ulteriore esposizione.

Gli stessi modernisti, che sono sì modernisti, ma conoscono la dottrina cattolica, lo fanno notare. Ciò traspare dalla corrispondenza tra Mons. Marcel Lefebvre e la Congregazione Romana della per la Dottrina della Fede, allora rappresentata dal “cardinale” Seper.

Alle doverose obiezioni del presule francese inerenti la Nuova Messa, il “card.” Seper così rispondeva in un allegato alla lettera del 16 marzo 1978:

«1. A proposito dell'Ordo Missae:

a) un fedele non può mettere in dubbio la conformità con la dottrina della Fede di un rito sacramentale promulgato dal Supremo Pastore (p. A3);

b) il carattere sacrificale e propiziatorio della Messa è assolutamente riaffermato, conformemente al Concilio di Trento, nella Institutio Generalis del Messale Romano (p. A 4);

c) le Sue dichiarazioni riguardo all’Ordo Missae e la Sua opposizione all'uso dello stesso diffondono la sfiducia, e lo scompiglio, ossia la ribellione tra i fedeli (ibid.).

2. Le Sue dichiarazioni generali (sull'autorità del Concilio Vaticano II e su Papa Paolo VI) si uniscono a una prassi che induce a domandarsi se non ci si trovi dinanzi a un movimento scismatico (p. A 6). Ella, infatti, ordina dei sacerdoti contro la volontà formale del Papa e senza le “litterae dimissoriae”  richieste dal Diritto Canonico - e questo Lei ha seguitato a farlo anche dopo la Sua sospensione a divinis; Ella invia questi sacerdoti in priorati dove esercitano il ministero senza l'autorizzazione dell'Ordinario del luogo; Ella tiene discorsi atti a diffondere le Sue idee in diocesi il cui Vescovo Le nega il consenso; con sacerdoti da Lei ordinati, Ella comincia - lo voglia o no - a formare un raggruppamento atto a divenire una comunità ecclesiale dissidente (pp. A 7-8).

3. Ella reputa che i sacerdoti da Lei ordinati abbiano la giurisdizione prevista dal Diritto Canonico per il caso di necessità. Non è questo un ragionare come se la Gerarchia legittima avesse cessato di esistere? (p. A8).

4. Il Papa ha la “ potestas suprema jurisdictionis ” “ non solum in rebus quae ad fidem et mores sed etiam in iis quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent ” (Conc. Vat. I, Cost. Pastor Aeternus, DS 3064) (p. A9), quindi l'ubbidienza che gli è dovuta non si limita alle materie dottrinali.

5. Con le Sue dichiarazioni sulla sottomissione al Concilio e alle riforme postconciliari di Paolo VI - dichiarazioni con cui si accordano tutto un comportamento e, in particolare, delle ordinazioni sacerdotali illecite - Ella è caduto in una grave disubbidienza la cui logica conduce allo scisma (p. A 10).

Franc. Card. Seper Prefetto»

Alle obiezioni sollevate dal “cardinal” Seper, Mons. Lefebvre non rispose punto per punto, ma solo con considerazioni generali concernenti la sua fedeltà alla Chiesa di Roma e all’allontanamento del Vaticano dalla Tradizione. Del resto cosa avrebbe potuto rispondere se non che il “cardinal” Seper aveva ragione e quindi per giustificare la sua azione doveva riconoscere che l’autorità non era più tale.

Don Bisig nel 1988 ribadiva lo stesso concetto a proposito dell’atteggiamento della Fraternità nei confronti dell’autorità Romana nel suo opuscolo “Du sacre épiscopal contre la volonté du pape” (25).

Don Bisig, rispondeva a Mons. Lefebvre che affermava: «Il papa attuale non è cattolico” in questo modo: “Se si intende “non è cattolico” nel senso più stretto ovvero nel senso teologico, ha perso la fede e ci si trova di fronte ad un dilemma: o il papa è sempre papa e conserva, pertanto, la giurisdizione, (validamente sebbene illecitamente), e allora è sempre lui e  solo lui che designa i membri del collegio dei successori degli Apostoli, e dunque i vescovi del 30 giugno non ne fanno parte, o il papa non è più papa e non ha, dunque, più, giurisdizione: è la “sedis vacans”, (sic). Sebbene Mons. Lefebvre non si sia, mai pronunciato sull’attualità e la possibilità teorica di questa tesi e delle sue conseguenze – l’ha sempre negata ufficialmente (26) –, resta in pratica che è proprio la “sedis vacans” che lo dirige, poiché solo essa può spiegare in modo coerente la sua posizione” (pagina 52); parimenti per spiegare le dichiarazioni di Mons Lefebvre secondo cui “I conciliari sono scismatici”, l’autore dell’opuscolo aggiunge alla nota, (a), della pagina 30: “E dunque, non è papa; non si può essere papa e scismatico nello stesso tempo; è una contraddizione nei termini, qualunque cosa possano aver disputato certi teologi; In effetti, non si vede come il papa possa essere escluso da questa unità di cui ne è per la sua funzione stessa il garante. È per questa ragione teologica che certi hanno scelto di conseguenza il sedevacantismo”; alla nota, (a), della pagina 42, afferma ancora: “Si sa che dei preti del Fraternità San Pio X chiedono perciò ai loro capi di avere l’onestà di riconoscere la vacanza della sede apostolica che sola, (siamo noi che sottolineiamo), giustificherebbe le consacrazioni del 30 giugno”.

Continuando nell’esame dell’articolo della Tradizione Cattolica a pagina 31 l’autore cita il Card. Billot che afferma: “Da ciò ne consegue che se la Chiesa aderisse ad un falso pontefice sarebbe come se aderisse ad un falsa regola della fede, essendo il Papa la regola vivente che la Chiesa nel credere deve seguire e sempre, di fatto, segue, come apparirà chiaramente da ciò che diremo in seguito”. La nota a questo passo del Card. Billot è perlomeno stravagante:

“Questa verità, che rappresenterebbe un argomento da parte sedevacantista contro chi riconosce l’autorità di Paolo VI e dei suoi successori, ci obbliga ad affermare che un "insegnamento" inconciliabile ed in contrasto con il magistero perenne della Chiesa non può venire dal papa in quanto papa, ovvero in quanto regola vivente della fede. Si tratta necessariamente di un'altra realtà (dottrina privata, consiglio, spunto di riflessione, stimolo per l'autocoscienza dell'umanità, ecc...) ma non di un insegnamento della Chiesa come tale.

(…) L'argomentazione sedevacantista suona infatti cosi: in ogni caso all'atto pratico Paolo VI non può essere seguito quale regola della fede, quindi il ragionamento non vale. Il ragionamento invece vale lo stesso perché parte dalla considerazione di ciò che la Chiesa deve essere a priori e ad ogni costo per continuare ad essere la Chiesa Cattolica e non dalla considerazione - peraltro possibile solo a posteriori - su ciò che gli uomini di Chiesa fanno.

Ci limitiamo solo a sottolineare, ancora una volta, che spiegare l'attuale crisi attraverso il sedevacantismo significa mutilare la Chiesa nel suo essere e far ricadere su Dio la responsabilità di non aver mantenuto le proprie promesse, aggravata infine dall'aver permesso un inganno universale nell'aver riconosciuto in Paolo VI il Sommo Pontefice.

Ancora una volta emerge la necessità di ricercare una spiegazione all’attuale crisi non mutilando la Chiesa nel suo essere, ma considerando i suoi membri nell'agire, (27) non in un difetto dello Spirito Santo bensì in un difetto dell'elemento umano nella sua libera cooperazione e nell'utilizzo dei carismi che Dio ha promesso di assicurare ogni giorno alla Sua Chiesa”.

Come si possono definire: “dottrina privata, consiglio, spunto di riflessione, stimolo per l’autocoscienza dell’umanità, ecc.” documenti ufficiali di Paolo VI e Giovanni Paolo II quali encicliche, motu propri e costituzioni apostoliche, che molte volte hanno promulgato leggi universali, disciplinari e liturgiche della Chiesa?

L’autore ha uno strano concetto del diritto e della prassi costante della Chiesa.

In altre occasioni la Fraternità ha cercato di rispondere a questa a quest’obiezione ricordando che si devono intendere le parole del Card. Billot relativamente al solo Magistero straordinario; ma ciò va contro le parole stesse del cardinale, quando parla di regula vivens. Ora, dato che il papa parla in modo straordinario due, tre volte per secolo, la regola sarebbe vivente solamente due, tre volte per secolo. Precisiamo, in ogni caso, che era difficile per questi teologi immaginare una situazione simile alla nostra. La chiave della risposta, tuttavia, risiede nelle loro stesse parole: “cum sit papa regula fidei vivens….”. Ora, come si è visto, non si può seguire la fede del “papa”, dunque non può più essere la regola della fede, poiché la sua è aliena alla fede cattolica. Inoltre proprio perché il papa è la regola vivente della fede, e “i papi conciliari” non hanno la fede, né conseguito che l’orbe cattolico ha seguito “il papa” nella sua apostasia. E coloro che non l’hanno seguito è perché dissentono in modo più o meno pubblico dal suo insegnamento.

Nubius aveva nel secolo XIX bisogna arrivare l trionfo della rivoluzione attraverso un papa e purtroppo è ciò che tutti possono constatare.

Una domanda sorge spontanea e va rivolta all’autore dell’articolo della Tradizione Cattolica: si può seguire l’insegnamento e l’autorità di Paolo VI e di Giovanni Paolo II? Oppure no?

Lo stesso Mons. M. Lefebvre lo ribadì in diverse occasioni ed andò ben oltre e sostenne la possibilità da parte della Chiesa di dichiarare non papi i “papi conciliari”. L’autore del testo ha omesso di prendere in considerazione queste affermazioni del fondatore della Fraternità per continuare a seguire il suo ragionamento avulso dalla realtà!

1) «Quale deve essere il nostro atteggiamento nei confronti di papa Paolo VI? Quest’atteggiamento sarà differente secondo il modo in cui si definisce il papa Paolo VI, (lo stesso problema si pone oggi per Giovanni Paolo II, N.d.R..) perché il nostro atteggiamento verso il papa, come papa e successore di Pietro, non può cambiare.

La questione, pertanto, in definitiva è questa: papa Paolo VI è egli stato o è ancora il successore di Pietro ? Se la risposta è negativa: Paolo VI non è stato mai papa o non lo è più, il nostro atteggiamento sarà quello dei periodi sede vacante, ciò semplificherebbe il problema. Certi teologi l’affermano, appoggiandosi sulle affermazioni di teologi del tempo passato, accettati dalla Chiesa e che hanno studiato il problema del papa eretico, scismatico o che abbandona praticamente il suo ufficio di Pastore supremo.

Non è impossibile che questa ipotesi sia, un giorno, confermata dalla Chiesa. Perché ha a suo favore degli argomenti seri. Numerosi sono, infatti, gli atti di Paolo VI che, compiuti da un vescovo o da un teologo, vent’anni fa sarebbero stati condannati come sospetti di eresia, favorevoli all’eresia. Davanti al fatto che è colui che siede sul trono di Pietro che compie questi atti, il mondo ancora cattolico ciò che né resta, rimane stupefatto, interdetto, preferisce tacere piuttosto che condannare, preferisce assistere alla distruzione della Chiesa, piuttosto che opporsi, aspettando giorni i migliori». Il colpo da maestro di Satana (Ecône, 1977)

2) Ed ancora a Parigi il 17 marzo 1985, Brano della dichiarazione di Mons. M. Lefebvre del 2 agosto 1976 «... D’altra parte, ci appare molto più certo della fede insegnata dalla Chiesa durante venti secoli non può contenere degli errori, che non è d’assoluta certezza che il papa sia proprio papa. L’eresia, lo scisma, la scomunica ipso facto, l’invalidità dell’elezione sono altrettante cause che, eventualmente, possono far sì che un papa non lo sia stato mai o non lo sia più. In questo caso evidentemente molto eccezionale, la Chiesa si troverebbe in una situazione simile a quella che accade dopo il decesso di un sommo pontefice».

3) Nella sua omelia di Pasqua 1986 ad Ecône, l’arcivescovo affermò: «(…) Ci troviamo veramente davanti ad un grave dilemma, ed è eccessivamente grave che credo, non sia mai esistito nella Chiesa: che colui che si è assiso sulla Sede di Pietro partecipi a dei culti di falsi dei. Penso che questo non sia mai capitato nella Chiesa. Quale conclusione dovremo forse trarre tra alcuni mesi, di fronte a questi reiterati atti di comunione con dei falsi culti? Non so... Me lo chiedo.

Ma è possibile che saremo nella condizione di credere che questo papa non è più papa. Perché sembra a prima vista (non vorrei ancora dirlo di un modo solenne e formale), ma sembra a prima vista che sia impossibile che un papa sia pubblicamente e formalmente eretico.

Nostro Signore gli ha promesso di essere con lui, di custodire la sua Fede, di custodirlo nella Fede. Com’è possibile che colui al quale Nostro Signore ha promesso di custodirlo definitivamente nella Fede, senza che possa errare nella Fede, possa, allo stesso tempo, essere pubblicamente eretico, e quasi apostatare...? (28)Ecco il problema che ci riguarda tutti, che non riguarda solamente me».

 

LE MONIZIONI CANONICHE

 

L’autore afferma alla pagina 52 che: “Per essere eretici davanti alla Chiesa ovvero formalmente e notoriamente è necessario che il soggetto si dimostri pertinace dopo aver divulgato l’eresia ed essere stato ammonito dall’autorità ecclesiastica competente”. Questa teoria è sostenuta anche da coloro che seguono la Tesi di Cassiciacum. A nostra conoscenza non esiste nessun teologo o canonista che affermi la necessità della monizione perché qualcuno possa essere considerato eretico formale. Al contrario ne abbiamo trovato almeno uno che afferma esplicitamente la non necessità della monizione.

Nella colonna 2222, il D.T.C. dichiara esplicitamente che non occorre monizione canonica: «…questa opposizione voluta al Magistero della Chiesa costituisce la pertinacia, che gli autori richiedono affinché ci sia il peccato d’eresia. (Sant’Alfonso, op. cit., I, II, TR. I, C. IV DUB. IV n°19). Bisogna osservare con Gaetano, in IIam, IIae, q. XI a. 2, e Suarez, op. cit, n° 8, che questa pertinacia non include necessariamente una lunga ostinazione da parte dell’eretico e monizioni da parte della Chiesa. Altra è la condizione del peccato di eresia, altra è quella del reato, punibile per le leggi canoniche ed è molto importante fare qui un’osservazione, per conservare, nonostante le esigenze di una prudente procedura, la vera nozione teologica del peccato d’eresia, nozione accettata da tutti i teologi ed inquisitori ad eccezione forse del solo giurista Alciato, nelle sue glosse sulle clementine De summa Trinitate» (29).

Il Conte Matteo da Coronata O.M.C. afferma:

«Eresia notoria. – Certi autori negano questa tesi: non si può ammettere che il Pontefice Romano possa essere eretico. Non si può provare tuttavia, che il Pontefice Romano, come dottore privato, non possa diventare eretico, se nega già con pertinacia un dogma definito. Quest’impeccabilità non gli è stata promessa mai da Dio. Perciò, Innocenzo III ha ammesso esplicitamente che il caso può capitare. Se veramente il caso accade, lui stesso (il papa) per diritto divino, decade dall’ufficio del suo incarico, senza nessuna sentenza, anche non declaratoria. Chi, infatti, apertamente, professa l’eresia si separa egli stesso dalla Chiesa e non è probabile che il Cristo conservi ad un tale pontefice indegno il primato su di essa. Perciò, se il Pontefice Romano professa l’eresia, è privato della sua autorità prima di qualsiasi sentenza che, del resto, è impossibile emettere» (30).

Come sostiene, dunque, questo autore e molti altri, è sufficiente il peccato di eresia e non il reato perché il papa decada dal suo ufficio. Il D.D.C., inoltre, quando riproduce in termini giuridici in cosa consista la monizione si comprende ancor di più che non può essere comminata ad un papa, infatti: qualora si consideri l’eletto al papato alla stregua di un comune vescovo o cardinale, le monizioni non possono essere formulate da un pari grado, ma solo da un superiore, alla voce “Monition” così asserisce: «La monizione di cui parla il Codice è un avvertimento indirizzato dall’Ordinario, al cristiano, clero e o laico, che si trova nell’occasione prossima di commettere un delitto, sul quale pende dopo un’inchiesta, un grave sospetto di colpevolezza (can. 1946 § 2, 2°; can. 2037)» (31).

Le monizioni, pertanto, sono un atto giurisdizionale emanato da un superiore ad un suo sottoposto e nessun vescovo ha come suo superiore un altro vescovo o cardinale, ma unicamente il papa.

Queste monizioni sono da distinguersi da quelle che Bruno d’Asti vescovo di Segni, l’Abate di Montecassino Sant’Ugo di Grenoble e Guido Arcivescovo di Vienne indirizzarono a Pasquale II sulla questione delle investiture. Quelle non possono essere considerate come monizioni canoniche “ratione iurirdictionis”, bensì come avvertimenti “ratione caritatis”.

In questo senso possono anche essere intese le diverse lettere pubbliche inviate prima a Paolo VI da Mons. M. Lefebvre, poi successivamente a Giovanni Paolo II sempre dallo stesso vescovo francese e da Mons. A. De Castro Mayer, per avvertirli degli errori che stavano perpetrando.

Con ciò si è appurato che le monizioni canoniche non sono necessarie per stabilire che un soggetto è un eretico formale

La Tradizione Cattolica contesta che “P. (cioè Paladino) maestro del sedevacantismo stretto tenta di applicare agli attuali pontefici l’ipotesi del Bellarmino” (32) e dopo aver citato argomenti dei Guerardisti, asserisce che: “l’imperdonabile errore di fondo di chi serve di questo argomento per rifiutare l’autorità degli attuali pontefici consiste nell’utilizzare una pura ipotesi teologica per trarne conclusioni certe ed obbliganti, equivalenti ad elementi di professione di fede cattolica, una semplice opinione teologica, anche discutibilissima, può tranquillamente essere abbracciata come tale, ma non può essere fondamento di alcunché di vincolante per la coscienza” (p. 53).

 Il libro che probabilmente l’autore ignora Petrus es tu?, redatto in francese e prossimamente tradotto in italiano, aveva già risposto a questa obiezione, in cui si afferma che, in effetti questa ipotesi da sola, in quanto sola ipotesi, non sarebbe stata sufficiente per giungere alla nostra conclusione. Si era detto che questa ipotesi era confermata, come una specie di prova del 9 a posteriori dal fatto che come abbiamo visto un papa non può errare e a cui bisogna essere sottomessi. Se erra e non si può essere a lui sottomessi, come non lo è anche la Fraternità, è un segno certo che quel papa non ha l’autorità.

Visto che un papa perde il suo ufficio come scrive il canonista Stefano Sipos nei seguenti modi:

«1) Per mortem (morte),

2) per resignationem (rinuncia),

3) per amentiam certam e perpetuam (follia),

4) per haeresim privatam notoriam e palam divulgatam (per eresia privata, notoria e apertamente divulgata)».

Atteso che Giovanni Paolo II non è morto, non da evidenti segni di squilibrio mentale, non ha rassegnato le dimissioni, ne consegue che ha perso il pontificato o non lo ha mai avuto per eresia, cosa ampiamente dimostrata da molti suoi discorsi ed atti ufficiali.

 

Don Francesco Maria Paladino

 

NOTE

 

 (1) Quest’articolo è stato redatto in concomitanza con la risposta di Sodalitium n. 56 al numero speciale della Tradizione Cattolica sul sedevacantismo. Molti argomenti, inevitabilmente si intrecciano, le differenze permangono in particolar modo sui punti che riguardano la Tesi.

(2) T. ZAPELENA, De Ecclesia Christi, Vol. II, Roma Gregoriana 1954, p. 252.

(3)  «habet (…) potestas suprema jurisdictionis»   «non solum in rebus qua ad fide et mores sed etiam in iis, quae ad disciplinam et regimem Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinet ».

(4) Come può l’abbé de Tanoüarn della Fraternità San Pio X nel periodico Pacte, n° 26 scrivere: “… la Nuova Messa è essenzialmente valida. É cattiva: fa perdere la fede … ma non impedisce che in teoria sia valida perché promulgata da Roma. Dichiarare invalida la messa promulgata da un papa, è provocare un corto circuito ecclesiologico irreparabile”. Scrivendo queste affermazioni l’abbé si rende conto che se affermasse che la nuova messa è invalida, dovrebbe ammettere che l’autorità che l’ha promulgata, non sarebbe più legittima, ma non comprende d’altro canto che assicurando che una messa promulgata da Roma è cattiva, cade ugualmente sotto le folgori della condanna di Pio VI. Per sfuggire a questa condanna, non c’è altra soluzione, che giungere alla conclusione che un’autorità che promulga una messa cattiva, che fa perdere la fede, non è legittima. Particolarmente, se si afferma che la nuova messa è cattiva, ma valida (ciò che non ammettiamo), non si salva l’autorità, perché in questo caso avrebbe fatto peggio che promulgare una messa invalida. Al cattivo rito, bisognerebbe aggiungere la profanazione del Corpo di Nostro Signore.

 (5) D.T.C. - Dictionnaire de Theologie Catholique.

 (6) F.X. WERNZ - P. VIDAL S.I., Jus Canonicum, Roma Gregoriana 1938, tomo II, p. 410.

 (7) J.M. HERVÉ, Manuale theologiae dogmaticae, Parigi 1952, Vol. I, p. 508.

(8) T. ZAPELENA S.I., De Ecclesia Christi, op. cit.  Vol. II, op. cit., p. 231

(9) Ibidem, p. 252 – 253.

(10) S. CARTECHINI S.I., Dall’opinione al dogma,  pp. 86 - 89

 (11) Nella rivista SI SI NO NO del 15 dicembre 2002, Hirpinus ha scritto un articolo dal titolo Idee chiare sulle canonizzazioni. C’è molto da ridire su l'insieme dell'articolo, ma volevamo  soltanto notare che Hirpinus cita sia L. Ott che Cartechini facendo credere che questi autori classifichino l’infallibilità della canonizzazione dei Santi nella nota teologica di sentenza comune, quando come è stato evidenziato nel n° 21 del Nuovo Osservatore Cattolico, la inseriscono sotto la nota di almeno teologicamente certa. Questa maniera di mistificare i testi da parte della Fraternità e di ambienti vicini ad essa è abbastanza comune come vedremo ancora.

 (12) L. OTT, Compendio di Teologia dogmatica, Torino Marietti, 1955, p. 493

 (13) S. CARTECHINI S.J., Dall’opinione al dogma, op. cit. p. 174

 (14) T. ZAPELENA, De Ecclesia Christi, op. cit.,  Vol. II, Roma Gregoriana 1954, p. 237.

 (15) Inciso dell’autore dell’articolo della Tradizione Cattolica.

 (16) L. BILLOT, De Ecclesia Christi, Quaest. XIV Th. 29, § 3.

(17) È opportuno considerare a questo proposito, che secondo alcuni teologi medievali la simonia era considerata, seppure, erroneamente un delitto al pari dell’eresia, per ovviare a questo inconveniente che avveniva alcune volte durante le elezioni papali ed in particolare per elezione di Alessandro VI, probabilmente compiutasi con simonia, Papa Giulio II con la Bolla “Cum tam divino” del 14 gennaio 1506 dichiarava nulle le promozioni a cariche ecclesiastiche compresa quella papale, avvenute con il concorso della simonia. San Pio X nella Costituzione “Vacante Sede Apostolica” dichiarò che la Bolla giuliana non doveva intendersi di diritto divino, ma puramente ecclesiastico e non poteva inficiare l’elezione del Sommo Pontefice. Il Savonarola contestò l’elezione di Alessandro VI basandosi sull’erronea concezione che la simonia compromettesse la validità dell’elezione papale sollevando questo difetto soltanto alcuni anni dopo la sua assunzione al Soglio di Pietro. Mentre secondo la Bolla di Giulio II bisognava sollevare il difetto immediatamente dopo l’elezione, in ogni caso al tempo del Savonarola la legislazione di Papa Giulio non era ancora in vigore. Questi fatti storici potrebbero essere uno dei motivi che ha portato il Card. Billot ad argomentare sulla questione di cui si è trattata.

 (18) “Ergo non erat hereticus, ea saltem haereticitate qua tollendo rationem membri Ecclesiale, pontificia potestate vel qualibet ordinaria iurisdictione ex natura rei consequenter privat”.

(19)  L. BILLOT, De Ecclesia Christi, op. cit. Quaest. XIV Th. 29, § 2.

(20) Ecco un altro esempio di come arrangiare i testi è abbastanza comune negli ambienti della Fraternità San-Pio X. Nel mese di gennaio 2000 uscì, ad uso interno della Fraternità, il primo numero della rivista Tradiction Doctrine actualité. Quel numero era intitolato: De l’action extraordinaire de l’Episcopat. Soprassediamo sul contenuto, perlomeno discutibile, per soffermarci sul punto di cui stiamo trattando. A pag. 61 l’autore scrive: “Nel suo Traité de Droit Canonique (Trattato di Diritto Canonico), Tomo I-II n° 512, riferendosi al canone 221, NAZ considera il caso dell’incapacità d’esercitare il potere in seguito a demenza perpetua o di eresia formale. In questi casi, dice, l’aiuto di un vicario non potrebbe supplire, poiché l'infallibilità ed il primato di giurisdizione non possono essere delegati”. Siamo andati a consultare Naz, il quale al n° 512 dopo aver trattato della rinuncia in senso stretto afferma: “Il potere del papa cesserebbe, inoltre, in seguito a pazzia irreversibile o ad eresia formale. Nel primo caso, il papa, essendo incapace di porre un atto umano, sarebbe di conseguenza incapace di esercitare la sua giurisdizione. L’aiuto di un vicario non potrebbe supplire, poiché l’infallibilità ed il primato di giurisdizione non possono essere delegati.

Nel secondo caso, stando alla dottrina più comune è teoricamente possibile, in quanto papa agente come dottore privato. Considerato che la Sede suprema non è giudicata da nessuno (can. 1556), bisognerebbe concludere che, per il fatto stesso e senza sentenza declaratoria, il papa sarebbe decaduto. Non vi sono esempi nella storia ecclesiastica che un vero papa sia caduto nell’eresia formale, anche solo come dottore privato”.

Da notare che nel dorso della copertina viene messa questa frase: “Viam veritatis elegi” (Sal. 118, 30). - “Ho scelto la via della verità”. Non mancano certo di sfacciataggine. È sufficiente comparare i due testi per rendersi conto che l’autore non esprime il pensiero di Naz sull’argomento, in quanto per il canonista francese l’incapacità di esercitare il potere papale è la causa della sua perdita, perché questo potere non si può delegare. Praticamente per il nostro autore l’eresia rende il papa solamente incapace di esercitare il potere senza che lo perda. All’evidenza, però, quest’incapacità è causa della perdita del potere. Ci sembra incredibile che l’autore possa in buona fede travisare il pensiero di Naz fino a questo punto. Questo testo è comprensibile da una qualsiasi persona in grado di leggere. Ci sembra d’altro canto inverosimile che l’autore del periodico italiano contro il Sedevacantismo non abbia letto fino in fondo il paragrafo del Card. Billot.

 (21) S. SIPOS - GALOS, Enchiridion Iuris Canonici, Pecs, 1940 p.187). «Eligi potest quolibet masculum, usu rationis pollens, membrum Ecclesiale. Invalide ergo eligerentur feminae, infantes, habituali amentia laborantes, non baptizati, haeretici, schismatici». Naz, Coronata, Prümmer e altri sostengono esattamente la stessa cosa.

 (22) Papa Paolo IV Bolla Cum ex apostolatus officio: «Aggiungiamo che, se mai dovesse accadere in qualche tempo che un Vescovo, anche se agisce in qualità di Arcivescovo o di Patriarca o Primate od un Cardinale di Romana Chiesa, come detto, od un Legato, oppure lo stesso Romano Pontefice, che prima della sua promozione a Cardinale od alla sua elevazione a Romano Pontefice, avesse deviato dalla Fede cattolica o fosse caduto in qualche eresia (o fosse incorso in uno scisma o abbia questo suscitato), sia nulla, non valida e senza alcun valore (nulla, irrita et inanis existat), la sua promozione od elevazione, anche se avvenuta con la concordanza e l’unanime consenso di tutti i Cardinali; neppure si potrà dire che essa è convalidata col ricevimento della carica, della consacrazione o del possesso o quasi possesso susseguente del governo e dell’amministrazione, ovvero per l’intronizzazione o adorazione (adoratio) dello stesso Romano Pontefice o per l’obbedienza lui prestata da tutti e per il decorso di qualsiasi durata di tempo nel detto esercizio della sua carica, né essa potrebbe in alcuna sua parte essere ritenuta legittima, e si giudichi aver attribuito od attribuire una facoltà nulla, per amministrare (nullam ... facultatem) a tali persone promosse come Vescovi od Arcivescovi o Patriarchi o Primati od assunte come Cardinali o come Romano Pontefice, in cose spirituali o temporali; ma difettino di qualsiasi forza (viribus careant) tutte e ciascuna (omnia et singula) di qualsivoglia loro parola, azione, opera di amministrazione o ad esse conseguenti, non possano conferire nessuna fermezza di diritto (nullam prorsus firmitatem nec ius), e le persone stesse che fossero state così promosse od elevate, siano per il fatto stesso (eo ipso) e senza bisogno di una ulteriore dichiarazione (absque aliqua desuper facienda declaratione), private (sint privati) di ogni dignità, posto, onore, titolo, autorità, carica e potere (auctoritate, officio et potestate)».

 (23) T. ZAPELENA, De Ecclesia Christi, Vol. II, Roma Gregoriana 1954, p. 237- 238. Il teologo sostiene che il fatto teologico della legittimità di un papa si applica anche ai concili ecumenici.

 (24) K.A. FINK, Chiesa e Papato nel Medioevo, Ed. Il Mulino Bologna 1987, p. 235 – 236.

(25) BISIG, è stato Superiore di Distretto della Germania fuoriuscito dalla Fraternità San-Pio X in occasione delle consacrazioni episcopali del 1988, diventato in seguito Superiore della Fraternità San-Pietro e attualmente destinato ad altro incarico pubblicò in quell’occasione l’opuscolo:  Sulle Consacrazioni episcopali contro la volontà del papa.

 (26) L’affermazione non è del tutto esatta, come si vedrà successivamente.

 (27) San Tommaso d’Aquino non diceva forse che l’agire segue l’essere (agere sequitur esse)?

(28)  A questa domanda Mons. Lefebvre non poteva rispondere chiaramente. Se rispondeva, si, sarebbe dovuto ammettere che un papa assistito dallo Spirito Santo potesse fare tutto quello che Giovanni Paolo II ha fatto. Se rispondeva, no, doveva necessariamente ammettere che non era papa. Comunque sia porre la domanda è già rispondere; non poteva fare quel che ha fatto con l'assistenza dello Spirito Santo.

 (29) D.T.C., Tomo VI, Col. 2222, l’autore cita pure San Tommaso d’Aquino S.T. IIª IIªe. q. XI a. 2 ad 3, ed il q. XXXII a. 4

 (30) Mattheus Comes a CORONATA, Institutionis iuris canonici, Vol. I, Marietti Torino 1928, p. 367. – «Haeresi notoria – Quidem auctores negant suppositum: dari nempe posse romanum pontificem haereticum. Probari tamen nequit romanum pontificem, ut doctorem privatum haereticum fieri non posse, e. g., si dogma antecedenter definitum contumaciter deneget; haec impeccabilitas ispi nullibi a Deo promissa est. Immo Innocentius III expresse admittit dari posse casum. Si vero casus accidat ipse ex iure divino ab officio, sine ulla sententia, ne declaratoria quidem, decidit. Qui enim palam profitetur haeresim se ipsum extra ecclesiam ponit et non est probabile Christum suae Primatum Ecclesiale tali indigno servare. Proinde si R. pontifex haeresim profiteatur ante quancumque sententiam, qua impossibilis est, sua auctoritate privatur».

 (31) D.D.C. Dictionnaire de Droit Canonique, articolo a firma di R. NAZ, Monition col. 938.

 (32) Quest’ipotesi consiste nell’affermare che il papa perde il pontificato a causa della sua eresia.