SEDEVACANTISMO |
Da IL NUOVO OSSERVATORE CATTOLICO
ANNO 2003 N. 22
LE RAGIONI DEL SEDEVACANTISMO Con il presente
articolo vogliamo confutare le argomentazioni esposte nel n° 52 de La
Tradizione Cattolica dedicato esclusivamente alla critica del
sedevacantismo. L’autore mischia argomenti sostenuti dai sedevacantisti con
quelli avanzati dagli aderenti alla Tesi detta di Cassiciacum (1) che
ammettono la validità dei conclavi di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, pur
riconoscendo gli eletti solo come papi materiali e non formali, occupanti di
diritto la Sede Romana. Senza voler dare
origine ad una sterile polemica, ma per chiarire i termini del problema, ci
sentiamo in dovere di rispondere alle obiezioni ed alle argomentazioni
proposte in quel numero relativamente al sedevacantismo. Non riproporremo in
questa sede le dimostrazioni sull’eresia dei “papi conciliari”, ma ci
limiteremo ad affrontare gli argomenti proposti dall’autore dell’articolo
della Tradizione Cattolica. Innanzi tutto bisogna
considerare che l’intero articolo è stato redatto in modo asettico e
completamente avulso dalla realtà. L’autore o gli autori
anonimi non tengono minimamente in considerazione i due argomenti principali
che permettono ai sedevacantisti di sostenere la loro posizione ovvero: 1)
La dovuta sottomissione al Romano Pontefice; quest’obbligo è definito già da
Bonifacio VIII nella Bolla “Unam Sanctam” nella quale sancisce che: «…è
assolutamente necessario alla salvezza per ogni creatura umana essere
sottomessa al Pontefice Romano» (DS. 875) 2) L’infallibilità della Chiesa e del papa
nell’oggetto secondario del Magistero; fanno parte di quest’oggetto, tra l’altro:
l’infallibilità delle leggi universali, disciplinari e liturgiche, promulgate
dalla suprema autorità ecclesiastica ed imposte a tutta la Chiesa, ed ancora
la canonizzazione dei santi (2). Relativamente
all’oggetto secondario del Magistero, citiamo a conferma di quanto sostenuto
alcuni stralci tratti dal Magistero della Chiesa e dei Romani Pontefici, che
insegnano che l’infallibilità non deve essere ristretta alle sole definizioni
solenni della Chiesa o alle definizioni ex cathedra. Tali atti del
Magistero condannano parimenti chi pretende di voler vagliare l’insegnamento
del Pontefice Romano. Successivamente a conferma di quanto affermato riporteremo
i passi salienti d’alcuni teologi: IL MAGISTERO
Il Concilio
Vaticano I, Costituzione
Apostolica Pastor Aeternus condanna
chi afferma che il Romano Pontefice: «Il Romano pontefice ha la
potestà suprema di giurisdizione non soltanto in ciò che concerne la fede ed
i costumi, ma anche in ciò che riguarda la disciplina e il governo della
Chiesa diffusa in tutta la terra». (DS 3064) (3). Pio VI, Bolla Auctorem fidei del 28 agosto 1794 (condanna
del conciliabolo di Pistoia), DS. 2678: la proposizione 78ª del Sinodo di
Pistoia è qualificata, «Dato che per la generalità delle parole abbraccia
e sottopone all’esame sopra descritto anche la disciplina istituita ed
approvata dalla Chiesa, come se la Chiesa che è condotta dallo Spirito di
Dio, potesse stabilire una disciplina, non solamente inutile e più gravosa di
quanto la libertà cristiana possa sopportare, ma anche pericolosa, nociva, e
che conduce alla superstizione ed al materialismo” e condannata come “falsa,
temeraria, scandalosa, dannosa, offensiva per le orecchie pie, ingiuriosa per
la Chiesa e per lo Spirito di Dio da cui essa è condotta, quanto meno
erronea» (4). Leone XII nell’Enciclica Quo
graviora, del 13 marzo 1825, a questo proposito insegna: «Forse
che la Chiesa, che è la colonna e il fondamento della verità e che in modo
manifesto riceve senza interruzione dallo Spirito Santo l’insegnamento di
tutte le verità, potrebbe ordinare, accordare, permettere una cosa che si
rivolgerebbe a detrimento alla salvezza delle anime e a disprezzo e alla rovina
di un sacramento istituito da Nostro Signore Gesù Cristo?». Pio IX nell’Enciclica Quae in patriachatu, del 1
settembre 1876 afferma: «A che cosa serve, infatti, proclamare il dogma
cattolico del primato del Beato Pietro e dei suoi successori, e aver diffuso
tante dichiarazioni di fede cattolica e d’ubbidienza verso la Sede
Apostolica, quando poi i fatti contraddicono apertamente le parole? Non
diventa forse persino meno scusabile l’ostinazione, quanto più si riconosce
il doveroso obbligo di obbedienza? E ancora, forse che l’autorità della Sede
Apostolica non si estende tanto da poter decretare ciò che è stato da Noi
disposto? O basta forse avere comunione di fede con essa, senza sottomissione
ed obbedienza? Queste cose non si possono sostenere se si vuol considerare
salva la fede cattolica. (…) Si tratta infatti,
Venerabili Fratelli e diletti figli, dell’obbedienza che si deve prestare o
negare alla Sede Apostolica; si tratta di riconoscere la sua suprema potestà
anche nelle vostre chiese, non solamente per ciò che riguarda la fede, ma
anche per quanto concerne la disciplina; chi l’avrà negata è un eretico (quam qui negaverit,
haereticus est); chi invece l’avrà rifiutata, e ostinatamente si rifiuterà di
obbedire, è degno di anatema anatema (qui vero agnoverit, eique obedire
contumaciter detrectet, anathemate dignus)». Leone XIII afferma nella lettera
Testem benevolentiae del 22 gennaio 1899: «Ed è testimone la
storia di tutte le età passate che questa Sede Apostolica, a cui fu affidato
non solo il magistero, ma anche il supremo governo di tutta la Chiesa, rimase
bensì costante “nello stesso dogma, secondo lo stesso senso e la stessa
opinione” (Cost. Dei Filius), e fu sempre solita regolare il modo di vivere
così, che salvo il diritto divino, non trascurò mai i costumi e le esigenze
di tanta diversità di popoli, che essa abbraccia. E, se la salvezza delle
anime lo richiede, chi dubiterà che anche ora non farà altrettanto? Vero è
che il decidere di questa non spetta all’arbitrio dei singoli uomini, che per
lo più sono tratti in inganno da un’apparenza di rettitudine; ma spetta alla
Chiesa giudicarne; e al giudizio della Chiesa è necessario che si conformi
chiunque non vuole incorrere nella riprensione di Pio VI nostro predecessore»
. San
Pio X, Allocuzione Con vera soddisfazione,
ai partecipanti del Congresso universitario cattolico di Roma, 10 maggio1909:
«Vi
raccomando soltanto d’essere forti per conservarvi figli devoti della Chiesa
di Gesù Cristo, quando tanti purtroppo, senza forse saperlo, si mostrano ribelli,
perché il criterio primo e massimo della fede, la regola suprema ed
incrollabile dell’ortodossia è l’obbedienza al magistero sempre vivente ed
infallibile della Chiesa, costituita da Cristo “columna et fundamentum
veritatis” (colonna e fondamento della verità). Gesù Cristo che conosceva la
nostra debolezza che è venuto in questo mondo per evangelizzare soprattutto
gli umili, ha scelto per la diffusione del Cristianesimo un mezzo molto
semplice, adattato alla capacità di tutti e di tutti i tempi, un mezzo che
non richiede né erudizione, né ricerche, né cultura, né ragionamento, ma
solamente delle buone orecchie per sentire ed un cuore buono per ubbidire.
Per questo motivo San Paolo afferma: “Fides ex auditu”, la fede viene non
tramite gli occhi, ma dalle orecchie, dal Magistero vivente della Chiesa
società visibile composta di maestri e di discepoli, di amministratori e di
sudditi, di pastori, di pecore e d’agnelli. Gesù Cristo sé ha ingiunto ai
suoi discepoli d’ascoltare le lezioni dei maestri; ai sudditi di vivere
sottomessi ai loro capi; alle pecore ed agli agnelli, di camminare docilmente
dietro i loro pastori; ai pastori, ai governanti ed ai padroni ha detto:
“Docete omnes gentes. Spiritus veritatis docebit vos
omnem veritatem. Ecce
ego vobiscum sum usque ad consummationem saeculi”. E quindi, con un sistema di
sofismi e d’inganni, insinuano il falso concetto dell’obbedienza insegnato
dalla Chiesa; si arrogano il diritto di giudicare gli atti dell’autorità
persino deridendola; si attribuiscono una missione che non hanno né da Dio né
da alcuna autorità, per imporre delle riforme; limitano l’obbedienza ai soli
atti esteriori, se pur non resistono e si ribellano contro alla medesima
autorità, opponendo il giudizio fallace di qualche persona senza autorevole
competenza o della loro propria privata coscienza illusa da vane
sottigliezze, al giudizio ed al precetto di chi per divino mandato, è
legittimo giudice, maestro e pastore. Né vi lasciate
ingannare dalle subdole dichiarazioni di altri, che protestano ripetutamente
di volere stare con la Chiesa, di amare la Chiesa, di combattere perché il
popolo non si allontani da essa, di lavorare perché la Chiesa, comprendendo i
tempi, si riaccosti al popolo e lo riguadagni. Ma giudicateli dalle loro
opere. Se maltrattano e disprezzano i Pastori della Chiesa e persino il Papa;
se tentano con ogni mezzo per sottrarsi alla loro autorità, per eludere le
loro direzioni ed i loro provvedimenti, se si peritano d’innalzare la
bandiera della ribellione, di quale Chiesa intendono questi parlare? Non,
certamente, di quella stabilita: super fundamentum Apostolorum e Prophetarum,
ipso summo angulari lapida Christo Jesu». Pio XII, anche nell’enciclica Mystici Corporis
Christi, del 29 giugno 1943 fa rilevare: «Si, certamente,
senza alcuna macchia risplende la pia Madre nei sacramenti con i quali con i
quali genera e alimenta i figli, nella fede che conserva sempre
incontaminata, nelle santissime leggi con le quali comanda…». I TEOLOGI
Passeremo ora a citare alcuni
teologi i quali ripetono tutti, la stessa dottrina sull’infallibilità delle
leggi. Ci accontenteremo di citarne qualcuno: «Possedendo il
papa tutta l’infallibilità confidata da Gesù Cristo alla sua Chiesa, si deve,
dunque, concludere, nella stessa misura ed alle stesse condizioni,
all’infallibilità dell’insegnamento dogmatico o morale praticamente inclusi
nelle leggi o decreti promulgati dal papa per la Chiesa universale”
(D.T.C. VII, 1706) (5). «Il Pontefice (e la Chiesa, N.d.R.) sono
infallibili nell’elaborazione delle leggi universali concernenti la
disciplina ecclesiastica (liturgia e diritto), in modo che non possano
stabilire mai qualche cosa che possa in alcun modo essere contrario alla fede
ed ai costumi» (6); nel qual caso «la Chiesa – come dice,
tra l’atro, il teologo Hervé - cesserebbe di essere Santa e cesserebbe,
dunque, d’essere la vera Chiesa del Cristo» (7). «La Tesi che
proponiamo è almeno “theologice certe”: A molti seri dottori pare, non senza
ragione, che questa tesi sia da ritenersi “de fide divina” come una cosa che
sia da Dio rivelata. Non ancora tuttavia questa verità è definita o proposta
dal Magistero della Chiesa come un dogma di fede da credersi. Tuttavia era
pronto nel concilio Vaticano I il seguente canone:“Se qualcuno restringe
l’infallibilità della Chiesa a ciò che soltanto è contenuto nella divina
rivelazione e non l’estende anche alle altre verità che sono necessarie per
custodire integro il deposito della rivelazione “anathema sit”» (8). Lo stesso teologo dedica tutto
il paragrafo IV all’esercizio dell’infallibilità nella promulgazione della «generale
disciplina ecclesiastica» (9). Sisto Cartechini
S.J., afferma: «... in quanto poi a quelle verità
che non sono proposte come rivelate, sono tutte da ritenersi almeno come
dottrina cattolica. Anche a riguardo di queste il pontefice può esercitare la
sua infallibilità, ed è teologicamente certo che anche in queste è
infallibile, benché non sia definito. Se nelle
encicliche, il pontefice non esercita la sua infallibilità – ciò deve
apparire dalla materia, dallo stato della questione e dalle parole usate, -
anche in questo caso le proposizioni proposte devono essere accettate, ed
anche per obbligo grave in materia grave, con assenso anche interno, non già
come nel caso di verità definita quale infallibile, ma come dottrina da
tenersi ed insegnarsi. Chi nega in cosa grave una dottrina insegnata dal papa
(dottrina cattolica) in un enciclica è almeno gravemente temerario» (10). LE CANONIZZAZIONI DEI SANTI La pretesa
canonizzazione di Escrivà de Balaguer pone altresì il problema
dell’infallibilità della canonizzazione dei Santi (11) che fa parte
anche questa dell’oggetto secondario del Magistero. Tutti i
teologi sostengono che il papa nell’atto della canonizzazione esercita il suo
potere di magistero infallibile. Ludovico Ott così
scrive: «All’oggetto secondario dell’infallibilità appartengono (tra
l’altro): La canonizzazione dei Santi, cioè il giudizio definitivo che
proclama che un membro della Chiesa è entrato nella beatitudine celeste e può
essere oggetto di un culto pubblico. Il culto reso ai santi è, come insegna
San Tommaso, “una professione di fede per cui crediamo alla gloria eterna dei
santi”. (Quodlib., IX, 16). Se la Chiesa potesse errare nel suo giudizio ne
risulterebbero della conseguenze inconciliabili con la sua santità» (12).
Sisto Cartechini così
si esprime in merito: «Santi e beati. L'oggetto
proprio che viene definito dalla Chiesa nella canonizzazione dei santi, è che
una data persona in concreto, per esempio Giovanni Bosco, è un santo e merita
quel culto il quale viene imposto a tutti i fedeli verso di lui. Da questo
segue necessariamente che quel santo già si trova in Paradiso. Ma nello
stesso tempo la Chiesa ci propone col suo magistero ordinario, il medesimo
santo come esimio esemplare di vita cristiana. Un martire invece, in quanto
tale, viene proposto come esemplare per sé solo di fortezza e di carità della
morte sostenuta per Cristo. Nelle
canonizzazioni dei santi è teologicamente certo che la Chiesa sia infallibile, non è invece teologicamente
certo che lo sia anche nelle beatificazioni”. “La canonizzazione dei
santi. Essa non è se non
l'applicazione concreta di due articoli di fede, quello sul culto dei santi e
l'altro della comunione dei santi. È dottrina cattolica o teologicamente
certa che la vita del santo che viene canonizzato sia esempio esimio e
modello di vita cristiana e di perfetta virtù. Si capisce che viene sancito
il complesso generale della vita del santo e non il valore dei singoli atti e
molto meno l’imitabilità dei medesimi, ossia l'attitudine ad essere imitati
da tutti. Quindi non perché una cosa è fatta o detta da qualche santo, questa
sia la sola ragione perché possa farsi da tutti. Così San Paolo si oppone in
faccia a San Pietro perché era degno di riprensione; tuttavia sarebbe molto
pericoloso se ciascuno lo volesse imitare proprio in questo» (13). IL FATTO DOGMATICO DELL’ELEZIONE
DI PAOLO VI Annoverare
come fatto dogmatico l’elezione di Paolo VI è un evidente imprecisione in cui
incorre l’autore dell’articolo: “È pero un fatto dogmatico, cioè un dato
che deve essere ammesso come assolutamente certo a causa delle sue
connessioni dirette con il dogma, che Paolo VI fosse papa nel giorno della
sua elezione al Sommo Pontificato. Il motivo formale su cui si fonda questo
fatto dogmatico consiste nel fatto che un nuovo papa, riconosciuto come tale
da tutta la Chiesa, dispersa nel mondo, è certamente papa. Che piaccia o no,
è quanto è accaduto il 21 giugno 1963 per il cardinal Montini, il quale
peraltro – ironia della sorte – ha avuto una delle cerimonie di incoronazione
più solenni della Storia”. (La Tradizione Cattolica p. 30) È
opportuno precisare che il fatto dogmatico, scricte sensu, non
consiste nell’accettazione da parte della Chiesa (clero e fedeli) di un determinato
papa, bensì nel riconoscimento ufficiale della legittimità di un papa da
parte della Chiesa. Eventualmente l’accettazione di un papa da parte della
Chiesa può essere soltanto un segno della sua legittimità. Il già
citato teologo Timoteo Zapelena così si esprime: «E la Chiesa non può
errare nel definire o nel dichiarare la legittimità di un determinato papa.
Pertanto il valore dogmatico delle definizioni promulgate dal papa, dipendono
dalla verità storica di questo fatto conosciuto per certo: se il papa non è
legittimo, non è vero successore di Pietro; di conseguenza non è infallibile.
Dunque se la Chiesa potesse errare nel dichiarare la legittimità di un
determinato papa, accetterebbe come dogmi rivelati da Dio, quelle cose che
per se stesse non sono tali» (14). La legittimità di un
papa, dunque, è intimamente connessa con l’esercizio dell’infallibilità, cosa
a cui l’autore dell’articolo della Tradizione Cattolica non accenna
minimamente. L’autore anonimo
dell’articolo cita, però in suo sostegno il Card. L. Billot: «Qualunque
cosa si possa pensare della possibilità o impossibilità della suddetta
ipotesi (il riferimento è alla ipotesi - considerata “impossibile”
dallo stesso Billot - del papa che cadesse nell’eresia e quindi perdesse il
pontificato) (15). Almeno un elemento deve essere mantenuto come
incrollabile e assolutamente certo: l’adesione universale della Chiesa sarà
sempre, semplicemente in se stessa, segno infallibile della legittimità della
persona del Pontefice ed ugualmente dell’esistenza di tutte le condizioni
richieste alla medesima legittimità. La ragione di tale verità non necessita
di lunghe argomentazioni. Infatti è immediatamente dimostrabile a partire
dall’infallibile promessa di Cristo e dalla sua provvidenza: “Le porte dell’inferno non prevarranno contro di
essa”, e ancora: Ecco io sono con
voi tutti i giorni. Da ciò ne consegue che se la Chiesa aderisse ad un
falso pontefice sarebbe come se aderisse ad una falsa regola della fede,
essendo il Papa la regola vivente che la Chiesa nel credere deve seguire e
sempre di fatto segue, come apparirà chiaramente da ciò che diremo in
seguito. Perciò Dio può permettere che talora la vacanza della sede
apostolica si protragga più a lungo. Può permettere anche che sorga un dubbio
su l’uno o l’altro eletto. Ma non può permettere che tutta la Chiesa
riconosca come pontefice colui elle non sia un legittimo e vero papa. Dal
momento in cui viene riconosciuto ed è unito alla Chiesa come la testa al
corpo, non deve più essere sollevata nessuna questione circa una possibile
anomalia nella procedura dell'elezione o circa il difetto di qualsivoglia
condizione necessaria alla legittimità, in quanto il menzionato
riconoscimento da parte della Chiesa sana in
radice ogni eventuale anomalia nell’elezione, e dimostra
infallibilmente la presenza di tutte le condizioni richieste» (16). La Tradizione
Cattolica, cita in modo incompleto il testo del Card. Billot, il quale
riporta immediatamente dopo, come esempio pratico, il caso di Alessandro VI,
la cui legittimità fu messa in dubbio dal Savonarola. L’accettazione da parte
della Chiesa sanò il vizio di simonia, (17) che si era verificato al
momento della sua elezione. Il Nostro “dimentica” di citare il periodo finale
di capitale importanza, che mostra quale sia il vero pensiero del teologo
gesuita. Il Billot, infatti, prosegue così: «E ciò sia detto contro quelli
che con intento scismatico al tempo di Alessandro VI vollero dar risalto a
certi fatti da lui compiuti e ripetevano spesso che l’ereticità di Alessandro
VI doveva essere rivelata in modo certo in un Concilio generale. Ma in verità
omettendo gli altri argomenti con i quali questa opinione può essere
facilmente confutata, visto che un solo argomento é sufficiente: consta senza
dubbio che al tempo in cui il Savonarola scriveva le sue lettere ai principi,
tutta la Cristianità aderiva e obbediva ad Alessandro come vero pontefice.
Dunque per il fatto stesso, Alessandro non era un falso pontefice, ma
legittimo. Dunque non era eretico, almeno di una tale eresia che fosse
sufficiente a porlo al di fuori dei membri della Chiesa, e che di conseguenza
priva, per il fatto stesso, della potestà pontificia o di qualsivoglia altra
ordinaria giurisdizione» (18). È, dunque, vero che per il
cardinale Billot, l’accettazione della Chiesa é il segno, che tutte le
condizioni di eleggibilità, compresa la cattolicità dell’eletto, sono
presenti. È però altresì vero che per il Card. Billot questa accettazione
include la sottomissione e l’obbedienza di tutta la Chiesa. Come può il
nostro invocare quest’argomento del Billot quando lui stesso che lo voglia o
no, con tutti i tradizionalisti, è obbligato a non essere sottomesso ed ad
non obbedire a Paolo VI prima e poi a Giovanni Paolo II per restare
cattolico? Accettare il papa senza essere sottomessi ed obbedirgli è un
errore gallicano, condannato non per ultimo da Pio IX nella citata enciclica Quae
in Patriarchatu, ripreso dalla Fraternità San-Pio X. Il Card. Billot, inoltre, nello
stesso capitolo, poco prima del testo citato, sostiene che un papa caduto in
eresia perderebbe, ipso facto, sine ulla declaratione, il pontificato.
A questo proposito l’autore della Tradizione Cattolica inserisce nel
testo, come si è visto questa frase: “Il riferimento è all’ipotesi –
considerata “impossibile” dallo stesso Billot – del papa che cadesse in
eresia e quindi perdesse il pontificato”. Il Card. Billot invece non
sostiene che è impossibile, ma cosi spiega: «Se dunque si realizza
l’ipotesi che un papa diventi notoriamente eretico, senza esitazione
(incunctanter), bisogna concedere che “ipso facto” perderebbe la potestà
pontificia, perché di sua propria volontà si porrebbe al di fuori del corpo
della Chiesa, diventando infedele, come bene dicono gli autori che a torto
come sembra sono confutati da Gaetano. Ho detto se l’ipotesi si realizzasse.
Ma che questa ipotesi sia una mera ipotesi che non può realizzarsi appare
di gran lunga più probabile, secondo quanto dice Luca 22, 32» (19).
È evidente, dunque, che, secondo le stesse parole del teologo gesuita,
l’ipotesi non è per nulla impossibile, ma solo improbabile (20). Quello che appare
evidente è che per il Card. Billot vi é incompatibilità tra eresia e
giurisdizione papale. Il canonista Sipos espone molto bene quali siano le
persone che possono essere elette al papato e quelle non atte: «Può essere
eletto non importa quale uomo maschio che abbia l’uso di ragione e che sia
membro della Chiesa. Sono, perciò, eletti invalidamente le donne, i bambini,
i dementi, i non battezzati, gli eretici e gli scismatici» (21).
Il canonista Sipos e gli altri molto probabilmente erano a conoscenza degli
scritti del cardinale gesuita. In ogni caso, in qualsiasi
ottica si voglia interpretare il testo del cardinale gesuita, questo va
inserito nel contesto storico in cui il teologo scriveva. È da notare che il
Card. Billot cerca di eclissare ogni argomento che possa contrastare con il
compito prefissato nel suo libro: esaltare il papato e l’infallibilità del
magistero pontificio, per contrastare i rigurgiti dei vecchi cattolici e
gallicani che continuavano ad mettere in dubbio e a negare l’infallibilità
pontificia, pertanto, nel suo esempio probatorio non fornisce i dati riguardo
all’eresia di cui era accusato Alessandro VI. Comunque questa è la tesi del
Card. Billot sul fatto dogmatico, interpretato diversamente da altri teologi
(vedi il testo sopra citato di Timoteo Zapelena). La Bolla di Papa
Paolo IV, a prescindere dal suo valore giuridico, argomento che sarà
affrontato in altro contesto, fa parte del Magistero della Chiesa. In questa
Bolla si evince l’incompatibilità tra eresia e supremo pontificato. Il testo
citato di Paolo IV afferma che potrebbe capitare che nonostante l’obbedienza
prestata all’eletto del conclave da parte di tutti, l’eletto potrebbe essere
incorso in eresia e non esservi stata fino ad allora nessuna denuncia e ciò
diventerebbe evidente solo successivamente all’elezione (22). Questo
stesso argomento era già stato utilizzato da Giulio II nella Bolla “Cum
tam divino” contro la simonia e sanciva la nullità dell’elezione avvenuta
in modo simoniaco di un papa, nonostante l’accettazione universale della
Chiesa. Usando, lo stesso
criterio (dell’accettazione universale) si potrebbe sostenere che tutti
documenti del Vaticano II (23) sono legittimi e cattolici, perché
accettati universalmente da tutta la Chiesa ed approvati dal papa. Il 7
dicembre 1965, infatti, nessun vescovo si levò durante la Sessione conclusiva
del Vaticano II, accusando pubblicamente che alcuni documenti approvati
contenevano eresie e/o errori; tutti i vescovi, al contrario, accettarono la
promulgazione dei documenti conciliari, compreso Mons. Lefebvre come riporta
il suo biografo ufficiale Mons. B. Tissier de Mallerais. Applicando
maldestramente le argomentazioni di Billot, il Card. Siri, dopo aver fatto un’aspra
critica alla teologia conciliare, giunse ad affermare che gli stessi
documenti conciliari “dovevano essere letti in ginocchio” perché
approvati dalla Chiesa e dal papa. (cfr. il libro del Card. Giuseppe Siri: Getzemani) Quest’argomento che
l’autore dell’articolo pubblicato su Tradizione Cattolica ritiene basilare,
va necessariamente ridimensionato anche in base a quanto affermato da altri
teologi e dalla realtà attuale dei fatti, che nessun teologo poteva allora
immaginare. Per terminare questo
paragrafo si vuole proporre un avvenimento eclatante nella storia della
Chiesa dove un papa per un certo tempo considerato legittimo cessò di essere
reputato tale dopo che la Chiesa si pronunciò alcuni secoli dopo sulla
legittimità di papi e concili. È il caso di Alessandro V papa eletto dal
Concilio di Pisa al tempo del Grande Scisma d’Occidente, infatti ancorché non
accettato da tutta la Chiesa, lo fu implicitamente da parte di un papa,
Alessandro VI, assumendo quel nome, implicitamente accettava la legittimità di
Alessandro V. Durante la Controriforma (24) la Chiesa si espresse
invece a favore di Gregorio XII, che pur era riconosciuto da pochissimi
presuli e da pochi fedeli, e non di Alessandro V che fu annoverato tra gli
antipapi, ancorché fosse a suo tempo riconosciuto dalla maggioranza
dell’episcopato cattolico. Quindi è questa dichiarazione della Chiesa che
deve essere considerata come fatto dogmatico e non l’accettazione della
Chiesa. CHI È CHE FA IL LIBERO ESAME? La Tradizione
Cattolica a
pagina 34, così si esprime: “La cosa è assurda (che il criterio della fede
sia l’unico a determinare la legittimità di un papa) e fa pensare
immediatamente al libero esame protestante in virtù del quale ogni fedele,
proprio perché ha la fede, è illuminato direttamente da Dio nel conoscere la
verità senza più bisogno della mediazione della Chiesa: l’origine della fede
non è più da ricercarsi nella predicazione di Pietro ma in un principio
immanente che mi permette di capire chi è il mio vero Pietro: in questo modo
un papa non può più essere, nemmeno de jure, regola oggettiva della fede
della Chiesa ma diventa espressione della mia fede” È possibile che
l’autore non si accorga che cercando di difendere impropriamente la
legittimità di Paolo VI come fatto teologico, per usare un’espressione
colorita e popolare: “sì da la zappa sui piedi”? È proprio la
Fraternità San Pio X, la prima ad usare del libero esame, vagliando tutti gli
atti del Vaticano. Si pronuncia, infatti, sul contenuto di una determinata
enciclica o di un certo documento decidendo ciò che è conforme alla fede
oppure no. Questo contraddice pienamente quanto espresso da Pio XII nella Vos
omnes, del 10 settembre 1957
in cui dichiara: «Che, tra voi, non ci sia posto per l’orgoglio del
“libero esame” che rileva da una mentalità eterodossa piuttosto che da uno
spirito cattolico, e secondo il quale gli individui non esitano a soppesare
al peso del loro giudizio ciò che proviene dalla Sede Apostolica». L’autore prosegue nel
suo “ragionamento”: “…se (…) abbiamo
una certezza assoluta del fatto che Pio XII è stato veramente papa, questa si
baserebbe sul fatto che lo abbiamo ascoltato insegnare cose che ci sono
sembrate giuste e quindi lo abbiamo riconosciuto vero papa: in realtà però
una tale certezza non ha più nulla di oggettivo e di assoluto”. Se non possono sorgere dubbi
sulla legittimità di Pio XII, non è perché ha affermato cose che ci possono
sembrare giuste, ma è perché essendo veramente papa non ha mai promulgato
atti in cui si riscontrassero oggettivamente degli errori dottrinali e che
coinvolgessero l’infallibilità anche soltanto nell’oggetto secondario del
Magistero. Nessun vero papa, infatti, può promulgare un rito che sia nocivo
per la fede e portare seppur anche indirettamente all’eresia. L’autore
dell’articolo pubblicato dall’organo della Fraternità in Italia, tratta poi
di Paolo VI come trattasse di Pio IX o di Pio XII. L’autore, infatti,
non tiene minimamente conto dei trascorsi di Monsignore e poi cardinale
Montini, dei suoi intrallazzi con i sovietici, dei suoi problemi con il Card.
Marchetti Selvaggiani a proposito della celebrazione della Messa coram
populo con i giovani della FUCI., dei suoi discorsi. Particolarmente
quello pronunciato quando era cardinale durante una visita all’Unione
Industriale di Torino; in breve fa astrazione dalla sua formazione modernista
che ha permeato tutti gli anni che hanno preceduto la sua elezione al
pontificato. Molto ci sarebbe,
poi, da ridire sulla cerimonia dell’incoronazione. Montini, infatti, fu il
primo a modificare il rito dalle otto ore precedenti previste dagli “Odines
Romani” ridotta a sei ore e celebrata in ogni sua parte in piazza San
Pietro anziché all’interno della Basilica, ad esclusione dell’incoronazione
vera e propria che precedentemente veniva solennizzata sulla loggia centrale.
La partecipazione di
molteplici capi di Stato, infine, è un ulteriore dimostrazione che un fautore
delle idee liberali non poteva che essere acclamato e riconosciuto da molti
suoi simili. UNA STRANA ECCLESIOLOGIA Le argomentazioni citate
dall’autore della Tradizione Cattolica vengono meno dal momento che si
affronta la posizione di Paolo VI relativamente all’oggetto secondario del
Magistero e alla dovuta obbedienza alla sua autorità. La sottoscrizione
dell’art. 7 del Novus Ordo Missae la promulgazione di Dignitate
Humanae personae e di Nostra aetate, la sottoscrizione dei vari
libri liturgici e che hanno cambiato tutti i riti dei sacramenti, sono
pietra d’inciampo per ogni ulteriore esposizione. Gli stessi modernisti, che sono
sì modernisti, ma conoscono la dottrina cattolica, lo fanno notare. Ciò
traspare dalla corrispondenza tra Mons. Marcel Lefebvre e la Congregazione
Romana della per la Dottrina della Fede, allora rappresentata dal “cardinale”
Seper. Alle doverose obiezioni del presule
francese inerenti la Nuova Messa, il “card.” Seper così rispondeva in un
allegato alla lettera del 16 marzo 1978: «1. A proposito dell'Ordo Missae: a) un fedele
non può mettere in dubbio la conformità con la dottrina della Fede di un rito sacramentale promulgato dal Supremo
Pastore (p. A3); b) il carattere sacrificale e propiziatorio della Messa è assolutamente riaffermato, conformemente al Concilio di Trento,
nella Institutio Generalis del Messale Romano (p. A 4); c) le Sue
dichiarazioni riguardo all’Ordo Missae e
la Sua opposizione all'uso dello stesso diffondono la sfiducia,
e lo scompiglio, ossia la ribellione tra
i fedeli (ibid.). 2. Le Sue
dichiarazioni generali (sull'autorità del
Concilio Vaticano II e su Papa Paolo VI) si uniscono a una prassi che
induce a domandarsi se non ci si trovi dinanzi a un movimento scismatico (p. A 6). Ella,
infatti, ordina dei sacerdoti contro la volontà formale del Papa e senza le
“litterae dimissoriae” richieste dal Diritto
Canonico - e questo Lei ha seguitato a farlo anche dopo la Sua sospensione a divinis; Ella invia questi sacerdoti in priorati dove
esercitano il ministero senza l'autorizzazione dell'Ordinario del luogo; Ella
tiene discorsi atti a diffondere le Sue idee in diocesi il cui Vescovo Le
nega il consenso; con sacerdoti da Lei ordinati, Ella comincia - lo voglia o
no - a formare un raggruppamento atto a divenire una comunità ecclesiale
dissidente (pp. A 7-8). 3. Ella reputa che
i sacerdoti da Lei ordinati abbiano la giurisdizione prevista dal Diritto Canonico
per il caso di necessità. Non è questo un ragionare come se la Gerarchia
legittima avesse cessato di esistere? (p. A8). 4. Il Papa ha la “
potestas suprema jurisdictionis ” “ non solum in rebus quae ad fidem et mores
sed etiam in iis quae ad disciplinam et
regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent ” (Conc. Vat. I,
Cost. Pastor Aeternus, DS 3064) (p.
A9), quindi l'ubbidienza che gli è dovuta non si limita alle materie
dottrinali. 5. Con le Sue
dichiarazioni sulla sottomissione al Concilio e alle riforme postconciliari
di Paolo VI - dichiarazioni con cui si accordano tutto un comportamento e, in
particolare, delle ordinazioni sacerdotali illecite - Ella è caduto in una
grave disubbidienza la cui logica conduce allo scisma (p. A 10). Franc. Card. Seper
Prefetto» Alle obiezioni sollevate dal
“cardinal” Seper, Mons. Lefebvre non rispose punto per punto, ma solo con
considerazioni generali concernenti la sua fedeltà alla Chiesa di Roma e
all’allontanamento del Vaticano dalla Tradizione. Del resto cosa avrebbe
potuto rispondere se non che il “cardinal” Seper aveva ragione e quindi per
giustificare la sua azione doveva riconoscere che l’autorità non era più
tale. Don Bisig nel 1988
ribadiva lo stesso concetto a proposito dell’atteggiamento della Fraternità
nei confronti dell’autorità Romana nel suo opuscolo “Du sacre épiscopal
contre la volonté du pape” (25). Don Bisig, rispondeva
a Mons. Lefebvre che affermava: «Il papa attuale non è cattolico” in
questo modo: “Se si intende “non è cattolico” nel senso più stretto ovvero
nel senso teologico, ha perso la fede e ci si trova di fronte ad un dilemma:
o il papa è sempre papa e conserva, pertanto, la giurisdizione, (validamente
sebbene illecitamente), e allora è sempre lui e solo lui che designa i membri del collegio dei successori
degli Apostoli, e dunque i vescovi del 30 giugno non ne fanno parte, o il
papa non è più papa e non ha, dunque, più, giurisdizione: è la “sedis
vacans”, (sic). Sebbene Mons. Lefebvre non si sia, mai pronunciato
sull’attualità e la possibilità teorica di questa tesi e delle sue
conseguenze – l’ha sempre negata ufficialmente (26) –, resta in
pratica che è proprio la “sedis vacans” che lo dirige, poiché solo essa può
spiegare in modo coerente la sua posizione” (pagina 52); parimenti per
spiegare le dichiarazioni di Mons Lefebvre secondo cui “I conciliari sono
scismatici”, l’autore dell’opuscolo aggiunge alla nota, (a), della pagina
30: “E dunque, non è papa; non si può essere papa e scismatico nello
stesso tempo; è una contraddizione nei termini, qualunque cosa possano aver
disputato certi teologi; In effetti, non si vede come il papa possa essere
escluso da questa unità di cui ne è per la sua funzione stessa il garante. È
per questa ragione teologica che certi hanno scelto di conseguenza il
sedevacantismo”; alla nota, (a), della pagina 42, afferma ancora: “Si
sa che dei preti del Fraternità San Pio X chiedono perciò ai loro capi di
avere l’onestà di riconoscere la vacanza della sede apostolica che sola,
(siamo noi che sottolineiamo), giustificherebbe le consacrazioni del 30
giugno”. Continuando nell’esame
dell’articolo della Tradizione Cattolica a pagina 31 l’autore cita il
Card. Billot che afferma: “Da ciò ne consegue che se la Chiesa aderisse ad
un falso pontefice sarebbe come se aderisse ad un falsa regola della fede,
essendo il Papa la regola vivente che la Chiesa nel credere deve seguire e
sempre, di fatto, segue, come apparirà chiaramente da ciò che diremo in
seguito”. La nota a questo passo del Card. Billot è perlomeno stravagante:
“Questa verità, che rappresenterebbe un argomento da parte
sedevacantista contro chi riconosce l’autorità di Paolo VI e dei suoi
successori, ci obbliga ad affermare che un "insegnamento"
inconciliabile ed in contrasto con il magistero perenne della Chiesa non può
venire dal papa in quanto papa, ovvero in quanto regola vivente della fede.
Si tratta necessariamente di un'altra realtà (dottrina privata, consiglio,
spunto di riflessione, stimolo per l'autocoscienza dell'umanità, ecc...)
ma non di un insegnamento della Chiesa come tale. (…) L'argomentazione sedevacantista suona infatti cosi: in ogni caso
all'atto pratico Paolo VI non può essere seguito quale regola della fede,
quindi il ragionamento non vale. Il ragionamento invece vale lo stesso perché
parte dalla considerazione di ciò che la Chiesa deve essere a priori e ad ogni
costo per continuare ad essere la Chiesa Cattolica e non dalla considerazione
- peraltro possibile solo a posteriori - su ciò che gli
uomini di Chiesa fanno. Ci limitiamo solo a sottolineare, ancora una volta, che spiegare
l'attuale crisi attraverso il sedevacantismo significa mutilare la Chiesa nel
suo essere e far ricadere su Dio la responsabilità di non aver mantenuto le
proprie promesse, aggravata infine dall'aver permesso un inganno universale
nell'aver riconosciuto in Paolo VI il Sommo Pontefice. Ancora una volta emerge la necessità di ricercare una spiegazione
all’attuale crisi non mutilando la Chiesa nel suo essere, ma considerando i
suoi membri nell'agire, (27) non in un
difetto dello Spirito Santo bensì in un difetto dell'elemento umano nella sua
libera cooperazione e nell'utilizzo dei carismi che Dio ha promesso di
assicurare ogni giorno alla Sua Chiesa”. Come si possono
definire: “dottrina privata, consiglio, spunto di riflessione, stimolo per
l’autocoscienza dell’umanità, ecc.” documenti ufficiali di Paolo VI e
Giovanni Paolo II quali encicliche, motu propri e costituzioni
apostoliche, che molte volte hanno promulgato leggi universali, disciplinari
e liturgiche della Chiesa? L’autore ha uno
strano concetto del diritto e della prassi costante della Chiesa. In altre occasioni la
Fraternità ha cercato di rispondere a questa a quest’obiezione ricordando che
si devono intendere le parole del Card. Billot relativamente al solo Magistero
straordinario; ma ciò va contro le parole stesse del cardinale, quando parla
di regula vivens. Ora, dato che il papa parla in modo straordinario
due, tre volte per secolo, la regola sarebbe vivente solamente due, tre volte
per secolo. Precisiamo, in ogni caso, che era difficile per questi teologi
immaginare una situazione simile alla nostra. La chiave della risposta,
tuttavia, risiede nelle loro stesse parole: “cum sit papa regula fidei
vivens….”. Ora, come si è visto, non si può seguire la fede del “papa”,
dunque non può più essere la regola della fede, poiché la sua è aliena alla
fede cattolica. Inoltre proprio perché il papa è la regola vivente della
fede, e “i papi conciliari” non hanno la fede, né conseguito che
l’orbe cattolico ha seguito “il papa” nella sua apostasia. E coloro
che non l’hanno seguito è perché dissentono in modo più o meno pubblico dal
suo insegnamento. Nubius aveva nel
secolo XIX bisogna arrivare l trionfo della rivoluzione attraverso un papa e
purtroppo è ciò che tutti possono constatare. Una domanda sorge
spontanea e va rivolta all’autore dell’articolo della Tradizione Cattolica:
si può seguire l’insegnamento e l’autorità di Paolo VI e di Giovanni Paolo
II? Oppure no? Lo stesso Mons. M.
Lefebvre lo ribadì in diverse occasioni ed andò ben oltre e sostenne la
possibilità da parte della Chiesa di dichiarare non papi i “papi
conciliari”. L’autore del testo ha omesso di prendere in considerazione
queste affermazioni del fondatore della Fraternità per continuare a seguire
il suo ragionamento avulso dalla realtà! 1)
«Quale deve essere il nostro atteggiamento nei confronti di papa Paolo VI?
Quest’atteggiamento sarà differente secondo il modo in cui si definisce il
papa Paolo VI, (lo stesso problema si pone oggi per Giovanni Paolo II, N.d.R..)
perché il nostro atteggiamento verso il papa, come papa e successore di
Pietro, non può cambiare. La questione,
pertanto, in definitiva è questa: papa Paolo VI è egli stato o è ancora il
successore di Pietro ? Se la risposta è negativa: Paolo VI non è stato
mai papa o non lo è più, il nostro atteggiamento sarà quello dei periodi sede
vacante, ciò semplificherebbe il problema. Certi teologi l’affermano,
appoggiandosi sulle affermazioni di teologi del tempo passato, accettati
dalla Chiesa e che hanno studiato il problema del papa eretico, scismatico o
che abbandona praticamente il suo ufficio di Pastore supremo. Non è impossibile
che questa ipotesi sia, un giorno, confermata dalla Chiesa. Perché ha a suo
favore degli argomenti seri. Numerosi sono, infatti, gli atti di Paolo VI
che, compiuti da un vescovo o da un teologo, vent’anni fa sarebbero stati
condannati come sospetti di eresia, favorevoli all’eresia. Davanti al fatto
che è colui che siede sul trono di Pietro che compie questi atti, il mondo
ancora cattolico ciò che né resta, rimane stupefatto, interdetto, preferisce
tacere piuttosto che condannare, preferisce assistere alla distruzione della
Chiesa, piuttosto che opporsi, aspettando giorni i migliori». Il colpo da maestro
di Satana (Ecône, 1977) 2) Ed ancora a Parigi
il 17 marzo 1985, Brano della dichiarazione di Mons. M. Lefebvre del 2 agosto
1976 «... D’altra parte, ci appare molto più certo della fede insegnata
dalla Chiesa durante venti secoli non può contenere degli errori, che non è
d’assoluta certezza che il papa sia proprio papa. L’eresia, lo scisma, la
scomunica ipso facto, l’invalidità dell’elezione sono altrettante cause che,
eventualmente, possono far sì che un papa non lo sia stato mai o non lo sia
più. In questo caso evidentemente molto eccezionale, la Chiesa si troverebbe
in una situazione simile a quella che accade dopo il decesso di un sommo
pontefice». 3) Nella sua
omelia di Pasqua 1986 ad Ecône, l’arcivescovo affermò: «(…) Ci troviamo veramente
davanti ad un grave dilemma, ed è eccessivamente grave che credo, non sia mai
esistito nella Chiesa: che colui che si è assiso sulla Sede di Pietro
partecipi a dei culti di falsi dei. Penso che questo non sia mai capitato
nella Chiesa. Quale conclusione dovremo forse trarre tra alcuni mesi, di
fronte a questi reiterati atti di comunione con dei falsi culti? Non so... Me
lo chiedo. Ma è possibile
che saremo nella condizione di credere che questo papa non è più papa. Perché sembra a prima vista (non
vorrei ancora dirlo di un modo solenne e formale), ma sembra a prima vista
che sia impossibile che un papa sia pubblicamente e formalmente eretico. Nostro Signore gli
ha promesso di essere con lui, di custodire la sua Fede, di custodirlo nella
Fede. Com’è possibile che colui al quale Nostro Signore ha promesso di
custodirlo definitivamente nella Fede, senza che possa errare nella Fede,
possa, allo stesso tempo, essere pubblicamente eretico, e quasi
apostatare...? (28)Ecco
il problema che ci riguarda tutti, che non riguarda solamente me». LE MONIZIONI CANONICHE L’autore
afferma alla pagina 52 che: “Per essere eretici davanti alla Chiesa ovvero
formalmente e notoriamente è necessario che il soggetto si dimostri pertinace
dopo aver divulgato l’eresia ed essere stato ammonito dall’autorità
ecclesiastica competente”. Questa teoria è sostenuta anche da coloro che
seguono la Tesi di Cassiciacum. A nostra conoscenza non esiste nessun
teologo o canonista che affermi la necessità della monizione perché qualcuno
possa essere considerato eretico formale. Al contrario ne abbiamo trovato
almeno uno che afferma esplicitamente la non necessità della monizione. Nella colonna 2222,
il D.T.C. dichiara esplicitamente che non occorre monizione canonica: «…questa
opposizione voluta al Magistero della Chiesa costituisce la pertinacia, che
gli autori richiedono affinché ci sia il peccato d’eresia. (Sant’Alfonso, op.
cit., I, II, TR. I, C. IV DUB. IV n°19). Bisogna osservare con Gaetano, in
IIam, IIae, q. XI a. 2, e Suarez, op. cit, n° 8, che questa pertinacia non
include necessariamente una lunga ostinazione da parte dell’eretico e monizioni
da parte della Chiesa. Altra è la condizione del peccato di eresia, altra
è quella del reato, punibile per le leggi canoniche ed è molto importante
fare qui un’osservazione, per conservare, nonostante le esigenze di una
prudente procedura, la vera nozione teologica del peccato d’eresia, nozione
accettata da tutti i teologi ed inquisitori ad eccezione forse del solo
giurista Alciato, nelle sue glosse sulle clementine De summa Trinitate» (29). Il Conte Matteo da
Coronata O.M.C. afferma: «Eresia notoria. –
Certi autori negano questa tesi: non si può ammettere che il Pontefice Romano
possa essere eretico. Non si può provare tuttavia, che il Pontefice Romano,
come dottore privato, non possa diventare eretico, se nega già con pertinacia
un dogma definito. Quest’impeccabilità non gli è stata promessa mai da
Dio. Perciò, Innocenzo III ha ammesso esplicitamente che il caso può
capitare. Se veramente il caso accade, lui stesso (il papa) per diritto divino,
decade dall’ufficio del suo incarico, senza nessuna sentenza, anche non
declaratoria. Chi, infatti, apertamente, professa l’eresia si separa egli
stesso dalla Chiesa e non è probabile che il Cristo conservi ad un tale
pontefice indegno il primato su di essa. Perciò, se il Pontefice Romano
professa l’eresia, è privato della sua autorità prima di qualsiasi sentenza
che, del resto, è impossibile emettere» (30). Come sostiene,
dunque, questo autore e molti altri, è sufficiente il peccato di eresia e non
il reato perché il papa decada dal suo ufficio. Il D.D.C., inoltre, quando
riproduce in termini giuridici in cosa consista la monizione si comprende
ancor di più che non può essere comminata ad un papa, infatti: qualora si
consideri l’eletto al papato alla stregua di un comune vescovo o cardinale,
le monizioni non possono essere formulate da un pari grado, ma solo da un
superiore, alla voce “Monition” così asserisce: «La monizione di
cui parla il Codice è un avvertimento indirizzato dall’Ordinario, al cristiano,
clero e o laico, che si trova nell’occasione prossima di commettere un
delitto, sul quale pende dopo un’inchiesta, un grave sospetto di colpevolezza
(can. 1946 § 2, 2°; can. 2037)» (31). Le
monizioni, pertanto, sono un atto giurisdizionale emanato da un superiore ad
un suo sottoposto e nessun vescovo ha come suo superiore un altro vescovo o
cardinale, ma unicamente il papa. Queste
monizioni sono da distinguersi da quelle che Bruno d’Asti vescovo di Segni,
l’Abate di Montecassino Sant’Ugo di Grenoble e Guido Arcivescovo di Vienne
indirizzarono a Pasquale II sulla questione delle investiture. Quelle non
possono essere considerate come monizioni canoniche “ratione
iurirdictionis”, bensì come avvertimenti “ratione caritatis”. In questo
senso possono anche essere intese le diverse lettere pubbliche inviate prima
a Paolo VI da Mons. M. Lefebvre, poi successivamente a Giovanni Paolo II
sempre dallo stesso vescovo francese e da Mons. A. De Castro Mayer, per
avvertirli degli errori che stavano perpetrando. Con
ciò si è appurato che le monizioni canoniche non sono necessarie per
stabilire che un soggetto è un eretico formale La Tradizione Cattolica contesta che “P. (cioè
Paladino) maestro del sedevacantismo stretto tenta di applicare agli
attuali pontefici l’ipotesi del Bellarmino” (32) e dopo aver
citato argomenti dei Guerardisti,
asserisce che: “l’imperdonabile errore
di fondo di chi serve di questo argomento per rifiutare l’autorità degli
attuali pontefici consiste nell’utilizzare una pura ipotesi teologica per
trarne conclusioni certe ed obbliganti, equivalenti ad elementi di
professione di fede cattolica, una semplice opinione teologica, anche
discutibilissima, può tranquillamente essere abbracciata come tale, ma non
può essere fondamento di alcunché di vincolante per la coscienza” (p.
53). Il libro che probabilmente l’autore
ignora Petrus es tu?, redatto in francese e prossimamente tradotto in
italiano, aveva già risposto a questa obiezione, in cui si afferma che, in
effetti questa ipotesi da sola, in quanto sola ipotesi, non sarebbe stata
sufficiente per giungere alla nostra conclusione. Si era detto che questa
ipotesi era confermata, come una specie di prova del 9 a posteriori
dal fatto che come abbiamo visto un papa non può errare e a cui bisogna
essere sottomessi. Se erra e non si può essere a lui sottomessi, come non lo
è anche la Fraternità, è un segno certo che quel papa non ha l’autorità. Visto
che un papa perde il suo ufficio come scrive il canonista Stefano Sipos nei seguenti modi: «1) Per mortem (morte),
2) per
resignationem (rinuncia), 3) per amentiam
certam e perpetuam (follia), 4) per haeresim
privatam notoriam e palam divulgatam (per eresia privata, notoria e
apertamente divulgata)». Atteso che Giovanni
Paolo II non è morto, non da evidenti segni di squilibrio mentale, non ha
rassegnato le dimissioni, ne consegue che ha perso il pontificato o non lo ha
mai avuto per eresia, cosa ampiamente dimostrata da molti suoi discorsi ed
atti ufficiali. Don Francesco Maria Paladino NOTE (1) Quest’articolo è
stato redatto in concomitanza con la risposta di Sodalitium n. 56 al
numero speciale della Tradizione Cattolica sul sedevacantismo. Molti
argomenti, inevitabilmente si intrecciano, le differenze permangono in
particolar modo sui punti che riguardano la Tesi. (2) T. ZAPELENA, De Ecclesia Christi, Vol. II, Roma Gregoriana 1954, p. 252. (3) «habet (…) potestas suprema jurisdictionis» «non solum in rebus qua ad fide
et mores sed etiam in iis, quae ad
disciplinam et regimem Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinet ». (4) Come
può l’abbé de Tanoüarn della Fraternità San Pio X nel periodico Pacte,
n° 26 scrivere: “… la Nuova Messa è essenzialmente valida. É cattiva: fa
perdere la fede … ma non impedisce che in teoria sia valida perché promulgata
da Roma. Dichiarare invalida la messa promulgata da un papa, è provocare un
corto circuito ecclesiologico irreparabile”. Scrivendo queste
affermazioni l’abbé si rende conto che se affermasse che la nuova messa è
invalida, dovrebbe ammettere che l’autorità che l’ha promulgata, non sarebbe
più legittima, ma non comprende d’altro canto che assicurando che una messa
promulgata da Roma è cattiva, cade ugualmente sotto le folgori della condanna
di Pio VI. Per sfuggire a questa condanna, non c’è altra soluzione, che giungere
alla conclusione che un’autorità che promulga una messa cattiva, che fa
perdere la fede, non è legittima. Particolarmente, se si afferma che la
nuova messa è cattiva, ma valida (ciò che non ammettiamo), non si salva
l’autorità, perché in questo caso avrebbe fatto peggio che promulgare una
messa invalida. Al cattivo rito, bisognerebbe aggiungere la profanazione del
Corpo di Nostro Signore. (5) D.T.C. -
Dictionnaire de Theologie Catholique. (6) F.X. WERNZ - P. VIDAL S.I., Jus Canonicum, Roma Gregoriana 1938, tomo II, p. 410. (7)
J.M. HERVÉ, Manuale theologiae dogmaticae, Parigi 1952, Vol. I, p.
508. (8) T. ZAPELENA S.I., De Ecclesia Christi, op. cit. Vol. II, op. cit., p. 231 (9) Ibidem, p. 252 – 253. (10) S. CARTECHINI S.I., Dall’opinione al
dogma, pp. 86 - 89 (11) Nella rivista SI SI NO
NO del 15 dicembre 2002, Hirpinus ha scritto un articolo dal titolo Idee
chiare sulle canonizzazioni. C’è molto da ridire su l'insieme
dell'articolo, ma volevamo
soltanto notare che Hirpinus cita sia L. Ott che Cartechini facendo
credere che questi autori classifichino l’infallibilità della canonizzazione
dei Santi nella nota teologica di sentenza comune, quando come è stato
evidenziato nel n° 21 del Nuovo Osservatore Cattolico, la inseriscono sotto
la nota di almeno teologicamente certa. Questa maniera di mistificare i testi
da parte della Fraternità e di ambienti vicini ad essa è abbastanza comune
come vedremo ancora. (12) L. OTT, Compendio
di Teologia dogmatica, Torino Marietti, 1955, p. 493 (13)
S. CARTECHINI S.J., Dall’opinione al dogma, op. cit. p. 174 (14)
T. ZAPELENA, De Ecclesia Christi, op. cit., Vol. II, Roma Gregoriana 1954, p.
237. (15)
Inciso dell’autore dell’articolo della Tradizione Cattolica. (16)
L. BILLOT, De Ecclesia Christi,
Quaest. XIV Th. 29, § 3. (17) È
opportuno considerare a questo proposito, che secondo alcuni teologi
medievali la simonia era considerata, seppure, erroneamente un delitto al
pari dell’eresia, per ovviare a questo inconveniente che avveniva alcune
volte durante le elezioni papali ed in particolare per elezione di Alessandro
VI, probabilmente compiutasi con simonia, Papa Giulio II con la Bolla “Cum
tam divino” del 14 gennaio 1506 dichiarava nulle le promozioni a cariche
ecclesiastiche compresa quella papale, avvenute con il concorso della
simonia. San Pio X nella Costituzione “Vacante Sede Apostolica”
dichiarò che la Bolla giuliana non doveva intendersi di diritto divino, ma
puramente ecclesiastico e non poteva inficiare l’elezione del Sommo
Pontefice. Il Savonarola contestò l’elezione di Alessandro VI basandosi
sull’erronea concezione che la simonia compromettesse la validità
dell’elezione papale sollevando questo difetto soltanto alcuni anni dopo la
sua assunzione al Soglio di Pietro. Mentre secondo la Bolla di Giulio II bisognava
sollevare il difetto immediatamente dopo l’elezione, in ogni caso al tempo
del Savonarola la legislazione di Papa Giulio non era ancora in vigore.
Questi fatti storici potrebbero essere uno dei motivi che ha portato il Card.
Billot ad argomentare sulla questione di cui si è trattata. (18)
“Ergo non erat hereticus, ea
saltem haereticitate qua tollendo rationem membri Ecclesiale, pontificia
potestate vel qualibet ordinaria iurisdictione ex natura rei consequenter
privat”. (19)
L. BILLOT, De Ecclesia Christi, op. cit. Quaest. XIV
Th. 29, § 2. (20) Ecco
un altro esempio di come arrangiare i testi è abbastanza comune negli
ambienti della Fraternità San-Pio X. Nel mese di gennaio 2000 uscì, ad uso
interno della Fraternità, il primo numero della rivista Tradiction
Doctrine actualité. Quel numero era intitolato: De l’action
extraordinaire de l’Episcopat. Soprassediamo sul contenuto, perlomeno
discutibile, per soffermarci sul punto di cui stiamo trattando. A pag. 61
l’autore scrive: “Nel suo Traité de Droit
Canonique (Trattato di Diritto Canonico), Tomo I-II n° 512,
riferendosi al canone 221, NAZ considera il caso dell’incapacità d’esercitare
il potere in seguito a demenza perpetua o di eresia formale. In questi casi,
dice, l’aiuto di un vicario non potrebbe supplire, poiché l'infallibilità ed
il primato di giurisdizione non possono essere delegati”. Siamo andati a
consultare Naz, il quale al n° 512 dopo aver trattato della rinuncia in senso
stretto afferma: “Il potere del papa cesserebbe, inoltre, in seguito a
pazzia irreversibile o ad eresia formale. Nel primo caso, il papa, essendo
incapace di porre un atto umano, sarebbe di conseguenza incapace di
esercitare la sua giurisdizione. L’aiuto di un vicario non potrebbe supplire,
poiché l’infallibilità ed il primato di giurisdizione non possono essere
delegati. Nel
secondo caso, stando alla dottrina più comune è teoricamente possibile, in
quanto papa agente come dottore privato. Considerato che la Sede suprema non
è giudicata da nessuno (can. 1556), bisognerebbe concludere che, per il fatto
stesso e senza sentenza declaratoria, il papa sarebbe decaduto. Non vi sono
esempi nella storia ecclesiastica che un vero papa sia caduto nell’eresia
formale, anche solo come dottore privato”. Da notare che nel dorso della
copertina viene messa questa frase: “Viam veritatis elegi” (Sal. 118,
30). - “Ho scelto la via della verità”. Non mancano certo di sfacciataggine.
È sufficiente comparare i due testi per rendersi conto che l’autore non
esprime il pensiero di Naz sull’argomento, in quanto per il canonista
francese l’incapacità di esercitare il potere papale è la causa della sua
perdita, perché questo potere non si può delegare. Praticamente per il nostro
autore l’eresia rende il papa solamente incapace di esercitare il potere senza
che lo perda. All’evidenza, però, quest’incapacità è causa della perdita del
potere. Ci sembra incredibile che l’autore possa in buona fede travisare il
pensiero di Naz fino a questo punto. Questo testo è comprensibile da una
qualsiasi persona in grado di leggere. Ci sembra d’altro canto inverosimile
che l’autore del periodico italiano contro il Sedevacantismo non abbia letto
fino in fondo il paragrafo del Card. Billot. (21) S. SIPOS - GALOS, Enchiridion
Iuris Canonici, Pecs, 1940 p.187). «Eligi potest quolibet
masculum, usu rationis pollens, membrum Ecclesiale. Invalide ergo eligerentur
feminae, infantes, habituali amentia laborantes, non baptizati, haeretici,
schismatici». Naz, Coronata, Prümmer e altri sostengono esattamente la
stessa cosa. (22) Papa Paolo IV Bolla Cum ex apostolatus officio: «Aggiungiamo
che, se mai dovesse accadere in qualche tempo che un Vescovo, anche se agisce
in qualità di Arcivescovo o di Patriarca o Primate od un Cardinale di Romana
Chiesa, come detto, od un Legato, oppure lo stesso Romano Pontefice, che
prima della sua promozione a Cardinale od alla sua elevazione a Romano
Pontefice, avesse deviato dalla Fede cattolica o fosse caduto in qualche
eresia (o fosse incorso in uno scisma o abbia questo suscitato), sia nulla,
non valida e senza alcun valore (nulla, irrita et inanis existat), la sua
promozione od elevazione, anche se avvenuta con la concordanza e l’unanime
consenso di tutti i Cardinali; neppure si potrà dire che essa è convalidata
col ricevimento della carica, della consacrazione o del possesso o quasi
possesso susseguente del governo e dell’amministrazione, ovvero per
l’intronizzazione o adorazione (adoratio) dello stesso Romano Pontefice o per
l’obbedienza lui prestata da tutti e per il decorso di qualsiasi durata di
tempo nel detto esercizio della sua carica, né essa potrebbe in alcuna sua
parte essere ritenuta legittima, e si giudichi aver attribuito od attribuire
una facoltà nulla, per amministrare (nullam ... facultatem) a tali persone
promosse come Vescovi od Arcivescovi o Patriarchi o Primati od assunte come
Cardinali o come Romano Pontefice, in cose spirituali o temporali; ma
difettino di qualsiasi forza (viribus careant) tutte e ciascuna (omnia et
singula) di qualsivoglia loro parola, azione, opera di amministrazione o ad
esse conseguenti, non possano conferire nessuna fermezza di diritto (nullam
prorsus firmitatem nec ius), e le persone stesse che fossero state così
promosse od elevate, siano per il fatto stesso (eo ipso) e senza bisogno di
una ulteriore dichiarazione (absque aliqua desuper facienda declaratione),
private (sint privati) di ogni dignità, posto, onore, titolo, autorità,
carica e potere (auctoritate, officio et potestate)». (23)
T. ZAPELENA, De Ecclesia Christi, Vol. II, Roma Gregoriana
1954, p. 237- 238. Il teologo sostiene che il fatto teologico della
legittimità di un papa si applica anche ai concili ecumenici. (24)
K.A. FINK, Chiesa e Papato nel Medioevo, Ed. Il Mulino
Bologna 1987, p. 235 – 236. (25) BISIG, è stato Superiore di Distretto della Germania fuoriuscito dalla
Fraternità San-Pio X in occasione delle consacrazioni episcopali del 1988,
diventato in seguito Superiore della Fraternità San-Pietro e attualmente
destinato ad altro incarico pubblicò in quell’occasione l’opuscolo: Sulle Consacrazioni episcopali contro
la volontà del papa. (26)
L’affermazione non è del tutto
esatta, come si vedrà successivamente. (27)
San Tommaso d’Aquino non diceva forse che l’agire segue l’essere (agere
sequitur esse)? (28) A questa domanda Mons. Lefebvre non
poteva rispondere chiaramente. Se rispondeva, si, sarebbe dovuto ammettere
che un papa assistito dallo Spirito Santo potesse fare tutto quello che
Giovanni Paolo II ha fatto. Se rispondeva, no, doveva necessariamente
ammettere che non era papa. Comunque sia porre la domanda è già rispondere;
non poteva fare quel che ha fatto con l'assistenza dello Spirito Santo. (29)
D.T.C., Tomo VI, Col. 2222, l’autore cita pure San Tommaso d’Aquino
S.T. IIª IIªe. q. XI a. 2 ad 3, ed il q. XXXII a. 4 (30)
Mattheus Comes a CORONATA, Institutionis iuris canonici, Vol. I,
Marietti Torino 1928, p. 367. – «Haeresi notoria – Quidem auctores negant
suppositum: dari nempe posse romanum pontificem haereticum. Probari tamen
nequit romanum pontificem, ut doctorem privatum haereticum fieri non posse,
e. g., si dogma antecedenter definitum contumaciter deneget; haec
impeccabilitas ispi nullibi a Deo promissa est. Immo Innocentius III expresse
admittit dari posse casum. Si vero casus accidat ipse ex iure divino ab
officio, sine ulla sententia, ne declaratoria quidem, decidit. Qui enim palam
profitetur haeresim se ipsum extra ecclesiam ponit et non est probabile
Christum suae Primatum Ecclesiale tali indigno servare. Proinde si R.
pontifex haeresim profiteatur ante quancumque sententiam, qua impossibilis
est, sua auctoritate privatur». (31) D.D.C. Dictionnaire de
Droit Canonique, articolo a firma di R. NAZ, Monition
col. 938. (32)
Quest’ipotesi consiste nell’affermare che il papa perde il pontificato a
causa della sua eresia. |
|
|